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Europa a due velocità, il cavallo non beve

Europa a due velocità, il cavallo non beveL'ex ministro delle Finanze della Germania Wolfgang Schauble – LaPresse

Le «previsioni economiche d’estate» della Commissione Europea annunciano un autunno difficile ed un inverno gelido per la zona euro e, in particolare, per l’Italia. Ma nell’Unione a 27 ci sono […]

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 14 luglio 2018

Le «previsioni economiche d’estate» della Commissione Europea annunciano un autunno difficile ed un inverno gelido per la zona euro e, in particolare, per l’Italia. Ma nell’Unione a 27 ci sono anche economie che corrono molto, come quelle dei paesi dell’est che non adottano la moneta unica.

Un’Europa a due velocità, praticamente, in cui convivono aree di stagnazione economica e aree che registrano tassi di crescita piuttosto sostenuti.

Diamo i numeri.

Nell’eurozona la crescita è data al 2,1% quest’anno e al 2,0% nel 2019. Malissimo l’Italia, che chiuderebbe l’anno in corso con un +1,3%, per poi calare fino all’1,1% l’anno prossimo (ultimi in tutta l’Unione).

Dati ai quali fanno da contraltare la crescita al 4,6% della Polonia, al 4,1% della Romania, al 4,0% dell’Ungheria, al 3,8% della Bulgaria.

Un caso a parte l’Irlanda, dove l’aumento del Pil del 5,6% previsto per quest’anno è da imputare, in gran parte, alle performance delle multinazionali dell’hi-tech che vi hanno sede.

Beninteso: i tassi di crescita di un paese non dicono niente del benessere dei propri cittadini.

Crescita e povertà possono anche andare di pari passo, come dimostrano molti casi dentro e fuori i confini dell’Europa (l’Etiopia è cresciuta ad una media dell’11% tra il 2005 e il 2015, ora sta sopra l’8%). Senza crescita, tuttavia, è molto più difficile attivare politiche redistributive. E tenere i conti a posto, soprattutto quando si è soggetti a vincoli di finanza pubblica imposti dall’esterno.

Non c’è dubbio, quindi, che, nel caso dell’eurozona, questi numeri chiamino in causa anche l’insostenibilità dell’attuale governance economica, caratterizzata da un impasto, insufficiente e per certi versi nocivo, di sole politiche monetarie e rigore di bilancio.

Peraltro, anche la politica monetaria «non convenzionale» ha mostrato tutti i suoi limiti.

In autunno finirà il programma di acquisti della Bce, ma del mare di liquidità di cui è stato inondato il sistema, l’economia reale ha visto poco o niente.

Se lo scopo del bazooka di Draghi, oltre a far calare i rendimenti dei titoli di Stato (scudo contro la speculazione), era anche quello di stimolare la domanda aggregata e dare ossigeno all’economia, i dati che stiamo analizzando dimostrano che l’esperimento è sostanzialmente fallito.

Ma è semplice: l’idea alla base dell’«allentamento quantitativo» è che bassi tassi di interesse spingerebbero famiglie ed imprese a chiedere soldi in prestito, quindi a spendere di più, rilanciando così l’economia.

Nel caso europeo, però, gli acquisti sono rivolti essenzialmente ai titoli di Stato, a fronte di un costo del denaro già pari a zero (e deciso autonomamente dalla stessa Bce).

Se i cittadini e le imprese non spendono e non investono, probabilmente le ragioni saranno da ricercare altrove («Si può portare il cavallo alla fontana, ma non lo si può convincere a bere», diceva Keynes).

Ma, soprattutto, bisognerebbe compensare il deficit di spesa privata con un aumento di spesa pubblica.

La verità è che questa Europa è stata costruita sulla base dei più rigidi dogmi della teoria economica dominante e, adesso, ne sta pagando pesantemente le conseguenze, fino al rischio di implodere.

Un esempio su tutti: nel momento più acuto della crisi, a cavallo tra il 2008 e il 2011, anziché incoraggiare un’espansione dei disavanzi pubblici in funzione «anticiclica», ai paesi della zona euro viene imposta una nuova stretta su bilanci pubblici e la «regola d’oro» diventa il pareggio di bilancio (fiscal compact).

Il risultato è stato che, nonostante siano stati immessi nel sistema oltre duemila miliardi di euro col Quantitative easing (l’intero debito pubblico italiano), a distanza di dieci anni l’inflazione oscilla tra l’1,3 e l’1,9% (1,4% in Italia a giugno), la crescita dei principali paesi europei, salvo qualche eccezione (la piccola Slovenia), balla sul crinale dell’1,5% o giù di lì, i disoccupati rimangono poco meno di 15 milioni (20 milioni in tutta l’Unione), esplodono disuguaglianza e nuove povertà.

Sullo sfondo, lo spettro della guerra commerciale lanciata da Trump, che potrebbe esporre l’economia europea a gravi shock esterni nel prossimo periodo.

Se da un lato quest’ultima evenienza smonta ogni velleità «sovranista», dall’altra impone un ripensamento radicale dell’architettura europea e della stessa moneta unica.

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