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Esportazione di armi, Germania da record

Esportazione di armi, Germania da recordUn soldato tedesco carica un carro armato Leopard-2 con munizioni – Ap

Deregulation bellica Dal 1 gennaio al 12 dicembre di quest’anno la il governo tedesco ha approvato la vendita di armamenti all’estero per 11,7 miliardi di euro. Oltre alle forniture a Kiev spuntano le solite eccezioni a favore di Arabia Saudita, Emirati e Qatar

Pubblicato 9 mesi faEdizione del 28 dicembre 2023

Il record bellico del governo Scholz smonta la promessa di Spd, Verdi e liberali di ridurre drasticamente l’export di armi made in Germany. A svelarlo è l’interrogazione al Bundestag dell’ex deputata Linke, Sevim Dagdelen, ora nelle file del partito di Sahra Wagenknecht, che ha chiesto il conto annuale del maxi-business di cui beneficia l’industria nazionale.

Dal 1 gennaio al 12 dicembre di quest’anno la il governo Ampel (semaforo) ha approvato la vendita di armamenti all’estero per 11,7 miliardi di euro, come ammette a denti stretti il ministro dell’Economia, Robert Habeck (Verdi) delegato a firmare i nulla-osta imprescindibili per spedire cannoni e munizioni oltre confine. E la sola guerra in Ucraina non appare in grado di giustificare l’enormità della cifra: all’esercito di Zelensky è finito appena un terzo delle esportazioni complessive della Germania cresciute del 25% rispetto all’anno scorso e del 40% in confronto di due anni fa.

La corposa lista delle forniture passate al vaglio del governo Scholz negli ultimi 12 mesi si divide in vere e proprie armi (pari a 6,1 miliardi di euro) ed equipaggiamento militare di vario genere e utilizzo (5,5 miliardi). Nella maggior parte dei casi i destinatari sono stati gli alleati della Nato o gli Stati che a Berlino godono di status militare equivalente, come il Giappone, l’Australia e la Corea del Sud. Ma spuntano le solite eccezioni a favore di Arabia Saudita, Qatar ed Emirati nonostante ufficialmente sussista lo stop all’export nei confronti di chi non rispetta i diritti umani. Oltre, ovviamente, a Israele: nel nome della ragione di stato ha ricevuto forniture dieci volte superiori alla lista del 2022.

In totale quest’anno la Germania ha venduto all’Ucraina armi per 4,1 miliardi, compresi i carri Leopard-2, i blindati Ghepard, e una montagna di munizioni di artiglieria, seguita dalla Norvegia con 1,2 miliardi di ordini e dall’Ungheria di Orbán forte di commesse pari a 1,03 miliardi.

Poi c’è il Regno Unito con 655 milioni di euro e gli Usa con 545 milioni, prima della confinante Polonia il cui riarmo preoccupa Scholz ma evidentemente non abbastanza da congelare i 327 milioni di prodotti bellici girati alle forze armate di Varsavia. In direzione del governo di Bibi Netanyahu, invece, sono partite spedizioni di sistemi d’arma del valore di oltre 323 milioni di euro: letteralmente decuplicate rispetto all’ultimo conto. Gran parte delle circa 200 autorizzazioni verso Tel Aviv sono state firmate dopo il 7 ottobre.

La deregulation bellica del governo Scholz è stata possibile grazie all’assenza della legge sul controllo delle armi destinata a frenare l’export. Annunciata in campagna elettorale due anni fa tanto dai socialdemocratici quanto dai Verdi (all’epoca indignati per i numeri del governo Merkel) la norma è finita nel cassetto con l’inizio del conflitto ucraino.

Il risultato è che ora sulle armi Berlino corre perfino più veloce di Washington con il paradosso che mentre l’ex’ “interventista” Joe Biden è prigioniero dei veti dei repubblicani il cancelliere Scholz, fino a ieri bollato come recalcitrante, è l’uomo che vende la polvere da sparo richiesta dal mercato di guerra.

All’interno di Spd e Verdi però c’è poco da festeggiare, come prova la denuncia del deputato socialdemocratico Ralf Stegner, pronto a criticare la consegna di armi all’Arabia Saudita, «una delle dittature più sanguinarie», come a chiedere che «il governo si concentri sulla povertà, la fuga dalle zone di guerra e dall’Ambiente devastato. Guardare al solo business industriale non risolve uno solo di questi problemi» Parallelamente il segretario dei Verdi, Omid Nouripour, suggerisce di introdurre un tetto all’export «ma non si può fare dall’oggi al domani».

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