In questi giorni la comunicazione e la politica si sono lanciate sul «caso Cospito» con una enorme foga, pari soltanto alla generale approssimazione. Si dimentica che al centro di tutto c’è la vita di un essere umano, un anarchico, cui è stato applicato il 41 bis in maniera molto discutibile, se si guarda ai fatti noti.

Gli argomenti utilizzati dai giudici e ripresi nel dibattito pubblico sono infatti fondati su un errore: cioè che Cospito sia il capo di una organizzazione terroristica, con una sua struttura gerarchica e un progetto effettivo di sovversione violenta. E in tale posizione dirigente, dal carcere, egli emetterebbe ordini che una docile massa inquadrata di anarchici sarebbe pronta a eseguire.

Di per sé l’anarchismo non ammette l’esistenza di una gerarchia politica, quindi capi, sottocapi quadri e masse, anzi il contrario: la sua ragion d’essere, convinca o non convinca, è la contestazione di ogni rapporto sociale fondato sul principio di autorità. Vengono concepite unicamente forme di aggregazione costruite su un principio federalistico, con decisioni basate su un consenso che fluisce dal basso in alto. Inoltre, nel caso di Cospito, anche volendo ammettere che le sue comunicazioni fossero pericolose, non avrebbe potuto essere applicata la misura della censura?

Forse in molti se lo chiedono. Le istituzioni, invece di compiere un autorevole e doveroso atto di coraggio, ossia la revoca immediata del 41 bis per Cospito, mostrano tutta la loro debolezza che, come spesso accade, si manifesta con pose muscolari e agitando lo spauracchio del «pericolo anarchico» .

Esiste oggi un «pericolo» di questo genere? Bisogna intendersi bene ed essere molto chiari. Se si parla di «terrorismo» si va del tutto fuori strada, soprattutto se la mente corre alle stragi, alla violenza che ferisce e uccide esseri umani. Negli ultimi decenni, l’unico caso di ferimento rivendicato da qualche esponente anarchico è quello dell’ingegner Adinolfi, per il quale proprio Cospito è stato condannato. Pur considerando tutte le diverse manifestazioni riconducibili a quel mondo plurale e pluralistico che definiamo anarchico, non risultano altri casi.

Questo non significa che gli anarchici non sfidino l’ordine stabilito, contestando coi loro mezzi le politiche criminali sui migranti, lottando contro le povertà crescenti, facendo fronte comune con le vittime di quella nuova questione sociale che si affaccia con sempre maggiore drammaticità nelle nostre città.

Il pericolo in questo senso è allora un altro, e non sorprende che i governi, poco interessati a rispondere ai bisogni degli strati sociali su cui la crisi si abbatte con durezza estrema, temano l’estendersi della propaganda anarchica e la possibilità che si saldi ad altri movimenti che attraversano l’attuale situazione. Tuttavia, è di chi spera di esorcizzare questa paura lasciando morire Cospito, per poi magari avviare una repressione su vasta scala, che bisogna avere più timore oggi.

Un’ultima annotazione, solo apparentemente marginale. Durante una recente trasmissione televisiva, l’eminente storico Salvatore Lupo, conosciuto in tutto il mondo per i suoi studi innovativi sulla criminalità organizzata, è stato indicato quale espressione di ambienti di «borghesia mafiosa». Se non fosse una drammatica forma di degrado del dibattito pubblico, come opportunamente denunciato dalla Società italiana degli storici contemporaneisti, sarebbe solo ridicolo. Eppure questo è il livello, anche quando si accostano gli anarchici a fantasiosi connubi con simili organizzazioni criminali. La cosa qui è egualmente infamante: le mafie hanno storicamente sostenuto le classi proprietarie, trovando spesso accomodamenti con il potere ufficiale; gli anarchici si sono mossi nel tempo in direzione del tutto opposta, e con le mafie non hanno mai cercato abboccamenti o accordi. Non tutti possono dire lo stesso.

Poi, la riduzione del complesso dell’opposizione che non è ricompresa nella sfera istituzionale, così come del dissenso e della critica radicale della società, a un fatto di criminalità comune o peggio organizzata, è un sintomo di una crisi civile profonda, che difficilmente troverà soluzione in una classe dirigente che sul disprezzo verso le classi popolari, i loro bisogni, le loro istanze, ha troppo spesso cercato di puntellare la propria incerta coesione.