Europa

Esiliati: 36esima evacuazione a Parigi

Immigrazione Sgombrati gli ultimi due accampamenti improvvisati nell'est della capitale. 973 persone coinvolte dopo le 1073 di mercoledì' scorso: tutti trasferiti in centri di accoglienza. Ma pochi avranno diritto all'asilo. E gli altri? Il ministro degli Interni minaccia espulsioni, ma la realtà è una precarizzazione delle vite (anche dei rifugiati, il vero problema è l'inserzione)

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 5 giugno 2018

I due grossi accampamenti di esiliati che ancora esistevano nell’est di Parigi, sono stati evacuati ieri mattina all’alba. Nella 36esima operazione di evacuazione che ha avuto luogo a Parigi da quando è esplosa la crisi degli esiliati, sono state coinvolte 973 persone, che avevano trovato una sistemazione più che precaria tra Jaurès e Poissoniers. L’operazione, che secondo la Prefettura si è svolta “nella calma” e “senza incidenti”, fa seguito allo sgombramento del 30 maggio scorso all’accampamento del Millénaire, sempre nell’est della captale. Qui era arrivata una quarantina di autobus, dove sono state fatte salire le 1017 persone. Gli esiliati sono stati trasferiti in centri di accoglienza, dove la loro situazione è stata esaminata dalle autorità dell’immigrazione. Ieri, nei due campi evacuati, viveva una popolazione ancora più precaria che al Millénaire. Qui, le 1073 persone evacuate erano di 33 nazionalità diverse, la maggioranza (53%) dei sudanesi. Ieri, la maggior parte delle persone era di nazionalità afghana, in una situazione di erranza da mesi. Il 5 giugno, si riunisce il comitato interministeriale all’integrazione: il problema principale è la mancanza di inserzione effettiva per i rifugiati. Difatti, nell’evacuazione del Millénaire un 10% delle persone coinvolte aveva già ottenuto lo statuto di rifugiato, ma poi era stata abbandonata a se stessa, senza proposte concrete.

Il ministro degli Interni, Gérard Collomb (ex Ps), è sotto accusa per una politica repressiva verso gli esiliati. Ormai, anche il linguaggio non ha più freni: nei giorni scorsi, il ministro ha affermato che i migranti fanno “benchmarking” per scegliere i paesi dove chiedere l’asilo e “sfruttare” quelli “più aperti”. In precedenza aveva parlato di “shopping” tra le diverse legislazioni. Di qui, la richiesta di Parigi di adottare legislazioni comuni in tutti i paesi dell’Unione europea. A Parigi, le evacuazioni dei tre campi degli ultimi giorni fanno seguito a un lungo braccio di ferro con la sindaca, la socialista Anna Hidalgo. La sindaca chiede che nella capitale venga “ricostruito” un centro di accoglienza, per evitare gli accampamenti selvaggi, dove la vita è impossibile per gli esiliati, dove si verificano violenze e che suscitano paura tra i parigini che abitano i quartieri dove sorgono (in genere nell’est della capitale dove ci sono gli arrondissements più popolari). Dal novembre 2016 fino a un mese fa, è esistito un centro di accoglienza a Porte La Chapelle, su un terreno della Sncf, ma la struttura è stata chiusa perché qui deve sorgere un campus universitario.

Di recente in Francia è stata approvata una nuova legge sull’immigrazione, più repressiva. Sulla carta, il programma è rispettare il diritto d’asilo per chi fugge da guerre o persecuzioni, ma respingere i migranti economici. La legge riduce a sei mesi i tempi legali per dare una risposta definitiva a una richiesta di asilo. Nei fatti, le espulsioni delle persone a cui è stato rifiutato lo statuto di rifugiato non superano il 10%. I “dublinati” (gli esiliati che hanno depositato richiesta d’asilo nel primo paese di arrivo nella Ue) vengono espulsi sempre meno: nel 2017, ce ne sono stati 982 verso l’Italia e 869 verso la Germania (la Grecia è praticamente fuori gioco, vista la situazione economica del paese). E molti degli espulsi poi tornano. Una cinquantina di persone entra ogni giorno senza documenti in Francia, molti prendono la strada per Calais, nella speranza di raggiungere la Gran Bretagna. In questo periodo, si sono svolti vari processi contro persone che sono venute in aiuto degli esiliati, in particolare al confine con l’Italia. Un “reato di solidarietà” di cui le associazioni umanitarie contestano la legalità.

 

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