Ernaux, passionali esercizi di alienazione da sé, senza risarcimento
La cifra più peculiare della scrittura di Annie Ernaux, quella che le è valsa il Nobel lo scorso anno, è la capacità di cogliere gli snodi decisivi nei destini generali della società francese del secondo dopoguerra, trasformando la sua autobiografia romanzata (la cosiddetta autofiction) in pietra di paragone di una vicenda collettiva, sociale e politica. A questa cifra si sottrae un dittico che ha avuto da noi una storia editoriale singolare: il romanzo Passione semplice, del 1992, è stato tempestivamente vòlto in italiano, lo stesso anno, da Idolina Landolfi, senza riscuotere un successo significativo (come del resto anche gli altri libri dell’autrice francese tradotti nel secolo scorso per Rizzoli); il diario Perdersi, del 2001, finora inedito in Italia, esce adesso per i tipi dell’Orma (pp. 256, € 21,00), la casa editrice che da oltre un decennio sta rendendo disponibile, nelle eleganti traduzioni di Lorenzo Flabbi, buona parte dell’opera di Ernaux.
I due volumi raccontano la stessa storia: la passione bruciante di Annie – durata circa dodici mesi (sul finire degli anni Ottanta, poco prima dello sfaldamento del Patto di Varsavia), ma in realtà circoscritta a pochi, travolgenti incontri erotici – per un misterioso funzionario dell’ambasciata sovietica a Parigi. L’uomo si chiama A. nel romanzo, S. nel diario; più giovane di lei di una dozzina d’anni, è un apparatcik comunista che in realtà – per usare le categorie di Ovidie, la maîtresse à penser del porno femminista francese – fa sesso come un uomo di destra, pensando solo al suo piacere, e naturalmente ingurgitando grandi quantità di vodka e di whisky.
La protagonista di Perdersi vive nell’attesa, angosciante, sfibrante, perfino superstiziosa, di una telefonata dell’uomo (in carriera e sposato: «la coppia, parola esecrata»), che a intervalli irregolari le dedica qualche ora del suo tempo; e la sommaria evocazione dei convegni erotici è per lo più ritmata dalla soddisfazione dei desideri di lui, fellatio e sodomia su tutti: «in testa ho soltanto il suo sesso eretto, il suo desiderio»; «il ‘maschio’, l’uomo, colui che per un certo tempo riconosco come un dio». La chimica del desiderio è perfetta, ma non può esserci complicità sentimentale, tantomeno intesa intellettuale. L’uomo si occupa di cultura per mestiere, ma gli interessano i soldi, i vestiti di lusso, le macchine di grossa cilindrata: il suo immaginario è completamente colonizzato dal consumismo occidentale. Certo, l’intuito storico e sociologico di Ernaux è acuto anche in Perdersi: col senno del poi, ci s’immagina facilmente un S. diventato oligarca putiniano. Ma nel dittico è la «passione» («Qualcosa di crudo e oscuro, senza salvezza») a invadere tutto lo spazio dei testi: che proprio per questo sono più intensi, più intimi, a tratti forse anche più riusciti di altri. Precisamente perché vengono meno quelle certezze (ideologiche e non di rado pedagogiche) che di norma scandiscono i libri di una scrittrice che non fa mistero dei suoi intenti engagés e dei suoi debiti nei confronti della sociologia di Pierre Bourdieu.
Per dirla tutta, Perdersi è un libro molto coraggioso, in cui un’intellettuale femminista registra, giorno dopo giorno, «una situazione assurda», la violenza di un desiderio che valica ogni linea rossa culturale, che azzera la ragione e perfino la dignità della donna, nell’«assoggettamento», nella «sottomissione», nell’«oppressione», insomma nella più totale alienazione.
La passione di Ernaux è dépense, scialo gratuito, dono autodistruttivo – Flabbi traduce «dispendio», cancellando il riferimento a Bataille e all’antropologia di primo Novecento. È desiderio assoluto e perdita senza risarcimento. Forse – imitando a suo modo l’elegante asciuttezza dei moralistes secenteschi – Ernaux ha voluto mostrare che è precisamente e soltanto il vuoto, il disvalore, l’estraneo a potersi colmare dei fantasmi di un desiderio assoluto e di fatto autodistruttivo, in cui l’io inevitabilmente si perde (come dice il titolo). Perciò, le pagine più disturbanti – non solo per il pubblico di sesso femminile – sono quelle in cui sfuma, fino a svanire, la distinzione fra «passione» e «amore», fra sesso oggettivamente egoista e fusione sublime dei corpi e delle anime: «ricadere nel mio stato di attesa, nel mio amore (quale altra parola?)».
Il limite maggiore dei libri più noti di Ernaux è la loro natura consensuale; qui, invece, Annie ha la forza di scardinare ogni certezza: propria e di chi legge; riesce a «scrivere qualcosa di pericoloso» per sé. Non è poco.
Rispetto a quelle, intensissime, in cui si dispiega l’alternanza bipolare di attesa e piacere, sconforto e chimerica speranza, risultano invece deboli le pagine dedicate al racconto dei sogni (interpretati con un freudismo da bistrot); e pretenziose quelle di impronta metaletteraria, in cui l’autrice rivendica una sorta di privilegio di fronte alla passione, postulando una parentela profonda fra quest’ultima, la scrittura e la morte. Ma se la stesura di Passione semplice, ci dice il diario, ha lenito, come una sorta di cura omeopatica, la ferita dell’abbandono di S., risulta evidente la sostanziale estraneità di Ernaux – la cui voce rimane nonostante tutto, anche qui, vitalista e ottimista – rispetto a quella teologia negativa della letteratura (da Mallarmé a Blanchot) cui pure sembra, per una volta, ammiccare.
Naturalmente, i lettori di Passione semplice potranno ora cercare analogie e differenze fra la sintesi del brevissimo romanzo e il referto più diffuso del diario: l’esercizio non è privo d’interesse e consente quantomeno di notare come la linearità cronologica dell’annotazione privata, giorno dopo giorno, restituisca più palpabile il tormento sempre rinnovato dell’attesa. Ma l’importanza del dittico si misura meglio, credo, a uno sguardo più distante, che lo inserisca in quella rivincita del soggetto e in quello smottamento verso la cronaca (più che «ritorno alla realtà»), che ha connotato la letteratura occidentale fra fine e inizio millennio; e (purtroppo) continua oggi, almeno in parte, a caratterizzarla. È come se il bisogno di verità autobiografica («non ho cambiato né tagliato nulla»), per depurarsi di ogni scoria di finzione letteraria, di ogni sperimentalismo modernista o postmoderno, dovesse rinnegare la scrittura ibrida dell’autofiction – che pure di quel presunto ritorno al realismo è stata antesignana –, per aprire la strada all’affresco sociale (sopravvalutato?) degli Anni, che vedrà la luce nel 2008, ma al cui progetto fanno già allusione, non a caso, le ultime pagine del diario. Di là dal giudizio di valore che se ne può dare, Ernaux si conferma dunque autrice centrale e sintomatica dei nostri tempi.
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