Cultura

Erin Kate Ryan e le donne scomparse in cerca di identità

Erin Kate Ryan e le donne scomparse in cerca di identità«Every One», particolare da un’opera di Cannupa Hanska Luger

L'intervista Parla la scrittrice americana, autrice di «Quantum girl», pubblicato da Neri Pozza. Tra noir, true crime e indagine sociale, una storia di sparizioni, apparenze e ruoli imposti dal genere. L’eco della vicenda di Paula Jean Welden, sparita nel 1946 nel «triangolo di Bennington» in Vermont. «Dapprima si parla di una tragedia, quindi si sollevano dubbi sui suoi "costumi". Poi i protagonisti diventano altri: la madre dal cuore spezzato, il padre ostinato, la città in lutto, il detective»

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 6 novembre 2022

Nel 1946 la scomparsa della studentessa diciottenne Paula Jean Welden suscitò un grande clamore negli Stati Uniti. Dopo di lei anche altre giovani donne sparirono nella stessa zona del Vermont e i media cominciarono a parlare di «triangolo di Bennington», la cittadina dove era sparita Paula Jean dopo essere uscita dal dormitorio del locale college femminile, a proposito della regione in cui si era registrato il maggior numero di casi. Di quella vicenda, per molti versi all’origine dell’intreccio voyeuristico e morboso, una sorta di «mitologia dell’orrore» travestita da buoni sentimenti, che ha dominato da allora l’attenzione pubblica su casi analoghi, c’è traccia anche in opere letterarie che cercano di restituire dignità e centralità proprio alle giovani scomparse. Lo aveva fatto già negli anni Cinquanta Shirley Jackson, una delle voci più innovative e selvagge del fantastico e del nuovo gotico americano, torna a farlo ora per il suo romanzo d’esordio Quantum girl (Neri Pozza, pp. 304, euro 18, traduzione di Irena Trevisan) Erin Kate Ryan. Intrecciando una sorprendente rilettura «quantica» della vicenda di Paula Jean Welden con altri casi di scomparse, Ryan mette insieme una storia dove il noir, il true crime e l’analisi sociale e di genere convivono nel tentativo non soltanto di capire cosa sia accaduto davvero a queste giovani donne, ma anche fino a che punto le loro storie siano mai state davvero al centro dell’attenzione generale.

Perché, a partire dal caso di Paula Jean Welden, come di altre figure, ha scelto di raccontare in un romanzo la scomparsa di giovani donne e quanto si sviluppa intorni a tali vicende?
Donne e uomini scompaiono più o meno alla stessa velocità negli Stati Uniti. Ma il mio interesse specifico riguarda il modo in cui vengono trattate le scomparse delle donne nel discorso pubblico e nella nostra cultura: dapprima si parla di una tragedia, quindi si comincia a sollevare qualche domanda sulla presunta purezza della donna. Rapidamente però la vicenda assume un altro profilo, quello di chi sta facendo le ricerche: il detective, la madre con il cuore spezzato, il padre ostinato, la città in lutto. Ben presto, la donna scomparsa viene sussunta dalla storia: è diventata la causa scatenante di quanto accade dopo. Volevo interrogarmi sul perché mano a mano che se ne parla la donna svanisce anche dalla storia della sua stessa scomparsa.

La scrittrice Erin Kate Ryan

Prima di lei Shirley Jackson si ispirò alla scomparsa di Welden per dei racconti nei quali emergeva anche l’eco di quella sorta di mitologia dell’orrore che cresce intorno a tali casi. Ha ripreso la sua ispirazione?
Shirley Jackson viveva a North Bennington al momento della scomparsa di Paula Jean Welden; suo marito, Stanley Edgar Hyman, era professore al Bennington College. Ha avuto perciò un’esperienza di prima mano di quella mitologia horror che andava emergendo fin d’allora intorno alla sparizione di giovani donne. Ha potuto seguire per settimane la copertura costante della storia dalla prima pagina del giornale locale, ha sentito gli aerei impegnati nelle ricerche passare sulla sua casa, probabilmente ha visto anche i detective inviati dal Connecticut per le indagini. E più tardi ha scritto un racconto, Missing Girl che ha avuto grande influenza sul mio lavoro: è tra quelle pagine che ho appreso per la prima volta del caso di Paula Jean Welden. Nella storia, Jackson segue da vicino il fragore suscitato localmente dalla scomparsa della ragazza, la tensione presente tra la scuola femminile che frequentava Paula Jean e la circostante città degli agricoltori. E, infine, sottolinea la progressiva assenza della ragazza dalla storia della sua stessa scomparsa. Così, credo proprio di aver dato una svolta molto «alla Shirley Jackson» al mio romanzo, a partire dai personaggi principali (e possibili sospetti, ndr): uno zio, un capo della polizia, un amministratore. Ma, allo stesso tempo, mi sono chiesta se, in base al modo in cui si era sviluppata la ricerca, la ragazza scomparsa non fosse semplicemente mai esistita.

Lei introduce poi la prospettiva della «ragazza quantica», riprendendo il termine dalla fisica, che offre molte diverse ipotesi e personalità per la figura di Welden. E intreccia a questa le vicende di altre giovani scomparse in anni e luoghi diversi. Cosa ci rivela tale prospettiva?
Uno dei tanti aspetti della teoria quantistica è l’entanglement quantistico (aggrovigliamento): parlando in termini poetici, si tratta dell’idea che gli oggetti possono essere inestricabilmente collegati, anche se esistono su piani diversi, mondi diversi, epoche diverse. Nel romanzo penso a ciascuna delle vite proposte da Paula Jean come collegate attraverso qualche tipo di possibilità. Qualcosa come il «sé ombra» di Jung, qualcosa come la vita non vissuta. Un’ipotesi che introduce tutta una serie di domande entusiasmanti. E se queste altre versioni di sé potessero avere un impatto su di noi, cambiare la nostra traiettoria? Cosa si guadagna abbracciando la piena possibilità di ciò che potremmo essere, di ciò che potremmo fare?

Lei sottolinea come esistano delle «vittime invisibili»: giovani donne che per razza, classe o scelte affettive sono considerate di «serie b» e per le quali non si assiste alla mobilitazione pubblica come per le giovani bianche del ceto medio…
Assolutamente. A far scattare l’attenzione dei media su vasta scala, a definire l’allerta pubblica intorno alla «Missing Girl» ci sono alcuni elementi ricorrenti: deve essere bianca, di classe media o alta, etero, cisgender, attraente secondo i canoni convenzionali, non disabile, sana di mente, giovane. Detto questo, si tratta di un onore non troppo invidiabile, visto che diventare una «ragazza scomparsa» ti rende solo idonea per il circo mediatico che però ti eclisserà rapidamente. D’altra parte, per tutte le altre che scompaiono l’oblio è forse un’alternativa? Quando le ragazze, o chiunque altro, scompare da comunità che sono definite al di fuori di quella dominante, queste comunità si mobilitano perché hanno imparato che devono prendersi cura l’uno dell’altro dei propri membri. Ciò che manca allora è un senso di attenzione al di là di coloro che sono immediatamente colpiti; attenzione e testimonianza come sostituti della dignità. E non è questo ciò che abbiamo visto durante la pandemia? Una domanda costante di quali vite siano degne, che vale la pena preservare, guardare, piangere.

A cercare di fare luce sulla sparizione di Polly, una delle ragazze di cui tratta il romanzo, c’è a sua volta una giovane donna, Mary Garrett, una sensitiva che rivive dei momenti delle vite delle giovani scomparse, che afferma: «Ogni spazio è infestato da qualcosa». Cosa significano queste parole nella prospettiva delle donne protagoniste del libro?
L’affermazione di Mary testimonia della minaccia che sente intorno a sé: in quanto persona che possiede «la Vista» si fa carico delle storie di dolore, perdita e crudeltà che aleggiano in alcuni luoghi: contengono le molecole delle nostre espressioni di ardore e paura. Sono macchiati di sangue e macchiati di sudore. Sono stati modellati da sottili minacce e crudeli aspettative e dalla sofferenza di coloro che li hanno sopportati entrambi. Per me, come scrittrice, è un promemoria della ricchezza e della complessità che esistono in ogni interazione, in ogni spazio. Scrivere una scena che si svolge negli Stati Uniti significa evocare tutta la violenza e la devastazione che il colonialismo dei coloni e la schiavitù hanno provocato. Scrivere una scena che coinvolga le persone che sono state spinte ai margini significa invocare ogni atto di oppressione, ogni sistema che è stato strutturato per togliere il potere, ingabbiare, respingere. Ogni conversazione è una conversazione anche con il nostro passato. Ogni abbraccio sta riparando qualcos’altro che è stato danneggiato.

Il libro capovolge la prospettiva di una celebre opera di Patricia Highsmith, «Il diario di Edith»: in quel caso una donna affidava a un diario il progressivo scollamento della propria percezione dalla realtà, mentre le donne scomparse di «Quantum girl» elaborano identità diverse di se stesse rispetto all’immagine che il mondo ha di loro.
Quando le ragazze scompaiono e il mondo inizia a ipotizzare cosa potrebbe essere successo, l’interesse è per il mistero non per la verità. L’immagine sui manifestini delle ricerche è piatta, bidimensionale. Questo romanzo è stato il mio sforzo per rimediare a quanto accaduto a Paula Jean: creare per lei la possibilità di altre vite, piccole cose e grande amore, egoismo, impulsività e crescita. Per animarla. Per liberarla dalla trappola di quell’avviso di scomparsa. Per renderla il più reale possibile. Inoltre devo ammettere che ho avuto per le mani i romanzi di Highsmith mentre lavoravo al mio libro.

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