Kierk Suren e gli altri suoi giovani colleghi hanno vinto una borsa di studio dell’Università di New York per analizzare i misteri della mente umana e tentare di scoprire il segreto della coscienza. Ben presto il giovane neuroscienziato protagonista di Le rivelazioni si renderà però conto che qualcosa non va nel progetto di ricerca che lo vede coinvolto insieme ad altri sette coetanei e proprio la morte violenta di uno di loro renderà evidente come una minaccia oscura accompagni ogni loro passo. In una metropoli dai contorni palpitanti, quasi si trattasse di un essere vivente, gli esperimenti e l’indagine nella quale sono impegnati rischiano di rivelarsi per Kierk e gli altri protagonisti una sfida che ha in palio la loro stessa vita, se non quella dell’intera umanità.

Indicato nel 2018 da «Forbes» tra i 30 migliori scienziati under 30, Erik Hoel unisce l’amore per la scienza con quello per la letteratura. L’autore di Le rivelazioni (Carbonio, pp. 410, euro 19, traduzione di Olimpia Ellero), un romanzo in cui il rigore scientifico, e alcuni grandi quesiti sul presente e il futuro dell’umanità, si intrecciano all’indagine criminale, è cresciuto tra gli scaffali della Jabberwocky Books, la libreria che la madre gestisce in Massachusetts. Conseguito il dottorato in neuroscienze all’Università del Wisconsin, ha lavorato alla Columbia e a Princeton; ora è assistente di ricerca alla Tufts University.

Lo scienziato e scrittore Erik Hoel

Uno dei massimi specialisti del settore, lo psichiatra e neuroscienziato Giulio Tononi, che lavora da tempo negli Usa, ha spiegato come sia possibile «misurare la coscienza» e come grazie alla «teoria dell’informazione integrata» si possano «caratterizzare i requisiti dei sistemi fisici che la rendono possibile e misurarne la quantità e la qualità». È uno dei temi che fa da sfondo al suo romanzo, di cosa si tratta e quali sono gli obiettivi di tali ricerche?
L’Informazione integrata è la teoria della coscienza più ambiziosa di cui la scienza disponga attualmente e ci permette di mappare gli stati del cervello e gli stati delle nostre esperienze coscienti. Giulio Tononi ha elaborato la teoria dell’Informazione integrata basata sull’introspezione: l’idea è che ci sono alcuni elementi delle nostre esperienze coscienti, come la loro varietà, che possono essere catturate matematicamente, e quindi possono essere usate per costruire questa mappa. Ho lavorato anch’io con lui a questa ricerca durante la scuola di specializzazione, quando ero un suo studente. È una delle teorie scientifiche contemporanee più interessanti. Anche se magari è sbagliata.

I protagonisti del romanzo lavorano ad una «teoria della coscienza», in qualche modo alla possibilità di riprodurla «in laboratorio». Ma se questo avvenisse, visti già i risultati delle ricerche sull’intelligenza artificiale, non si arriverebbe, come sembra evidenziare il suo libro, al rischio di clonare completamente l’essere umano?
Studiare la coscienza non è come studiare i quark. L’etica deve entrare necessariamente in gioco, perché stai facendo degli esperimenti sul cervello stesso. Quali esperimenti sono etici? Nel mio romanzo si parla anche di quelli che vengono chiamati «organoidi cerebrali», che sono parti di cervelli umani clonati cresciuti in una capsula di Petri. Lo svolgimento di tali esperimenti solleva ogni sorta di domande morali, dal momento che i cervelli potrebbero essere coscienti. Ma se tutto ciò può sembrare fantascienza, non è così, si tratta di pratiche reali: i neuroscienziati le svolgono abitualmente. Tuttavia, poiché non sappiamo come funziona la coscienza nel cervello, potremmo generare menti solipsistiche, prive di input sensoriali. Quindi la loro vita potrebbe essere un sogno senza fine. Una specie di orrore. Perciò non credo che dovremmo rischiare di inoltrarci ulteriormente in tali esperimenti.

Cosa spinge un giovane e brillante scienziato come lei verso la scrittura e perché ha scelto di affrontare dei veri temi scientifici attraverso un romanzo nella tradizione del poliziesco?
Sono cresciuto nella libreria di mia madre, quindi la scrittura è sempre stata presente nella mia famiglia. So che può apparire insolito per uno scienziato scrivere un romanzo, ma penso che la maggior parte delle distinzioni tra i vari «campi», come tra le arti e le scienze, siano illusioni del mondo accademico e alla fine neppure molto solide. Mi considero sia uno scrittore che uno scienziato, e ho voluto mettere il mio background scientifico nel libro. Ho scelto un romanzo poliziesco perché detective e scienziati condividono radici storiche identiche. Il primo detective della narrativa si trova nel romanzo di Voltaire Zadig. E, in effetti, c’è un riferimento nascosto a Zadig all’inizio de Il nome della rosa di Umberto Eco, che è, a sua volta, un libro che ha influenzato molto Le rivelazioni. Voltaire ha inventato la figura del detective, e ciò è accaduto nello stesso momento in cui è nato anche un altro profilo, quello dello scienziato: sono entrambi archetipi dell’illuminismo che danno la caccia ai misteri. E elaborare una teoria della coscienza rimane il più grande mistero scientifico irrisolto. Quindi mi è sembrato naturale collegare i due elementi e fare in modo che gli scienziati del romanzo, che normalmente indagano intorno alla coscienza, agiscano come investigatori.

In un’intervista alla stampa americana ha spiegato di aver letto e riletto più volte «Moby Dick» mentre scriveva «Le rivelazioni». In che modo l’opera di Melville vi ha ispirato?
Melville è un valente prosatore, ma è anche un romanziere molto attento al respiro filosofico delle proprie opere. La sua scrittura traeva ispirazione da idee, filosofie, persino dalla scienza. Arrivare ad una teoria della coscienza corrisponde in qualche modo alla famosa balena bianca per il protagonista di Le rivelazioni. È un compito altrettanto impossibile, ma che non può fare a meno di perseguire. Coloro che vivono un’ossessione non sono come le persone normali, sono come Achab, completamente consumati da ciò che stanno cercando. E questo accade anche per scienziati e artisti.

Lei ha studiato anche il modo in cui si formano i sogni, avanzando un’interpretazione secondo la quale il cervello proporrebbe dei soggetti strani, in apparenza lontani dall’esperienza del sognatore, per «allenarsi» all’inedito, a vicende lontane dal nostro quotidiano. Di cosa si tratta?
L’ipotesi del cervello sovradimensionato che ho delineato afferma che lo scopo evoluto dei sogni è di mantenere le nostre menti capaci di generalizzazione. Sognare previene un fenomeno chiamato overfitting, in cui i sistemi di apprendimento, come il nostro cervello, prestano troppa attenzione ai dettagli e non abbastanza alla gestalt. L’inserimento di dettagli fantastici li costringe a generalizzare: sono necessari per una mente sana. E penso che questo sia anche il caso della fiction, a partire dalla narrativa, che rappresenta una sorta di sogno artificiale. Proprio come abbiamo inventato il fuoco per poter realizzare la maggior parte della digestione al di fuori del nostro stomaco, abbiamo inventato storie in modo da poter sognare durante il giorno.

Alcuni maestri della fantascienza come Philip K. Dick o James G. Ballard hanno raccontato un futuro molto simile al presente immaginando le possibili derive delle nostre società. Il suo romanzo ha una base rigorosamente scientifica, eppure, giunti all’ultima pagina, ci si chiede se descriva una dimensione utopica o una distopia.
Nel libro, tutti i dettagli sono scientificamente accurati e quindi riflettono il nostro mondo. Tuttavia, è vero, la storia suggerisce come ci si possa trovare allo stesso tempo di fronte a un’utopia piuttosto che a una distopia. Ciò dipende in modo significativo da quale sia la natura ultima della coscienza, dal punto di vista scientifico. Alla fine magari capiremo che la coscienza non è niente di speciale, che ci stiamo illudendo e che non possediamo il libero arbitrio? O andrà diversamente? Non abbiamo alcun controllo su tutto questo. È solo qualcosa che scopriremo.