Sfuma per Recep Tayyip Erdogan l’elezione diretta alla presidenza in un appuntamento elettorale che, con quasi il 90% di affluenza, è stato tra i più partecipati degli ultimi decenni. Erdogan resta il candidato più votato con il 49,4% delle preferenze, ma non supera quel 50% che gli avrebbe dato immediata garanzia di restare a palazzo e subisce invece il primo «pareggio» elettorale da quando guida la Turchia.

Di fronte ha avuto lo sfidante repubblicano Kemal Kılıçdaroglu, che si attesta al 45%. Più lontani gli altri due candidati: poco più del 5% a Sinan Ogan, ennesimo figlioccio dell’estrema destra turca in rampa di lancio; 200mila i voti per Muharrem Ince, già candidato nel 2018 e che si era in realtà ritirato dalla corsa giorni fa.

LE ELEZIONI del parlamento confermano invece la vittoria della coalizione Alleanza popolare guidata da Erdogan, che però ha poco da gioire. Mantiene la maggioranza, ma l’Akp perde trenta seggi e aumenta la sua dipendenza dai partiti alleati più piccoli, dall’ultranazionalista Mhp agli islamisti Refah e Hüda Par, che si apprestano a batter cassa in ambito politico e civile in un contesto tutt’altro che facile da gestire: le macerie, quelle delle case distrutte dal violento terremoto del 6 febbraio, e quelle dell’economia in profonda crisi, sono ancora lì che aspettano.

L’opposizione, coalizzata nell’Alleanza della Nazione, fallisce invece un sorpasso in cui ha voluto credere a tutti i costi, al punto da essersi dimenticata di chiedere conferma a chi conta veramente, quella pancia del paese anatolico sui cui si reggono due decadi di consenso del Reis. Recuperare cinque punti percentuali al ballottaggio sembra impresa non impossibile ma ardua.

In ogni caso, un presidente repubblicano si troverà di fronte uno scenario da incubo: un parlamento ostile, una burocrazia cronicamente clientelare dell’Akp e un’economia che non si riprenderà nel breve termine, non importa chi sia il timoniere o quale la ricetta.

RESTA IL GRANDE merito di un lavoro certosino che ha abbattuto il più grande tabù politico della storia turca: l’aver convinto i curdi del sud-est a votare in massa un candidato erede del kemalismo e, al contempo, aver persuaso l’elettorato repubblicano a vedere nella politica curda un interlocutore legittimo, resistendo alle picconate arrivate sia dagli sfidanti diretti sia dalla destra interna alla coalizione, guidata da Meral Aksener.

Un lavoro che non ha prodotto nelle urne i risultati auspicati, ma è qui che risiede, ad oggi, la più concreta possibilità di un’evoluzione della sinistra turca che dovrà resistere a molte tentazioni di riflusso: del nazionalismo kemalista storico per alcuni, di una nuova chiusura etnico-geografica per altri.

Il partito filo-curdo della Sinistra verde, nuova denominazione per quell’Hdp che si è così sottratto alla possibile sentenza di bando della Corte costituzionale, ha contribuito a questa costruzione politica ingoiando amari bocconi, dall’esclusione formale dall’alleanza a una leadership che ha rinunciato a visibilità e riconoscimento, e dovrà fare ora conti interni.

QUELLO DELLE URNE del 14 maggio è un esito che alla fine non fa davvero contento nessuno. Certo, ci sono i caroselli per strada degli elettori Akp fedelissimi, nei quartieri di tradizionali come Balat e in quelli moderni come Bostanci a Istanbul, e persino a Osmaniye, piccola cittadina del sud tritata dal terremoto. Ma questo, ormai è chiaro, non ha influito sulle urne. Ci avevano già avvertito i sondaggisti, che gli elettori in fondo non biasimavano Erdogan per gli edifici crollati a di fronte a un bisogno abitativo a cui si è risposto con molta liberalità antisismica e un’edilizia speculativa assai redditizia per i soliti amici.

A onor di cronaca, l’opposizione non ha semplicemente sfidato Erdogan, ma lo stato turco. La commistione tra partito Akp e istituzioni è sempre più salda e si è fatta sentire nell’uso di bastone e carota elettorali denunciati anche dagli osservatori dell’Osce.

I provvedimenti filogovernativi del Consiglio elettorale superiore, la copertura mediatica sbilanciata della tv pubblica Trt, le bollette del gas azzerate a ridosso delle elezioni, le decine di arresti di giornalisti e attivisti d’opposizione, tutto conduce a un uso dello stato e delle sue istituzioni strumentale non solo ai fini di propaganda favorevole a Erdogan, ma al conseguimento sistematico di un risultato elettorale di cui, in altro contesto, forse scriveremmo diversamente.

Sono state elezioni partecipate e vissute coi brividi, ma non sono state elezioni libere.