Il referendum sugli emendamenti alla costituzione della Turchia si chiude ufficialmente con il 51,2% di voti a favore del Sì e il 48,8% per il No, con uno scarto di poco meno di 1,3milioni di preferenze. Insorgono le opposizioni, che accusano il governo di aver manipolato l’esito elettorale attraverso la pressione esercitata sul Consiglio elettorale supremo (in turco Yuksek Secim Kurulu, Ysk).

«NON HA RISPETTATO gli standard internazionali», sul referendum è arrivata pesantissima la bocciatura dell’Osce, che si è espressa durante una conferenza stampa sui risultati preliminari. Mai era accaduto prima d’oggi che il contesto di un appuntamento elettorale in Turchia, paese membro fondatore del Consiglio d’Europa, venisse giudicata in modo tanto grave. Secondo la relazione, la consultazione si è tenuta in un contesto sociale e politico completamente sbilanciato.

 

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Lo stato turco non ha garantito un equo e imparziale accesso alle informazioni e si è invece personalmente speso in favore del Sì attraverso i suoi più alti rappresentanti, incluso Erdogan. Pesanti restrizioni e censure sono state imposte ai partiti d’opposizione, compreso il respingimento di oltre 170 candidature per il ruolo di osservatore ai seggi. È stata fortemente impedita la partecipazione attiva alla campagna da parte della società civile. I media sono stati manipolati in modo da impedire al pubblico l’accesso a un’informazione neutrale e completa. Lo stato di emergenza ha impattato negativamente sulla libertà d’espressione, oltre ad aver reso impossibile l’appello contro i provvedimenti arbitrariamente decisi dall’esecutivo. A causa delle operazioni militari in alcune parti del paese e del caos conseguente, è stato negato il diritto di voto ad alcuni di coloro che sono dovuti fuggire dalle proprie residenze, con lo stato che non ha provveduto a riorganizzare registrazioni al voto e circoscrizioni in modo adeguato. Infine, la decisione dello Ysk sulla convalida di un milione e mezzo di voti privi dei crismi di legalità delineati dalla legge turca stessa, è stato definito «un grave danno alle garanzie di legittimità del voto e una pratica illegale».

LO YSK È STATO SPINTO, ad urne ancora aperte, a dichiarare validi un milione e mezzo di voti raccolti in buste elettorali prive di quel timbro di garanzia che proprio lo Ysk appone prima di inviarle ai seggi di destinazione, allo scopo di evitare l’iniezione nelle urne di voti falsi. A spoglio in corso, video dai seggi hanno cominciato a circolare sui social media, in cui uomini erano intenti a timbrare voti con il Sì, uno dopo l’altro, il tutto davanti alle telecamere di telefonini. In altri video si vedono votanti accompagnati in cabina dai presidenti di seggio per uscirne con più d’una busta in mano.

ANCORA PEGGIO, il presidente dello Ysk Sadi Guven ha candidamente dichiarato che la scelta di approvare le schede contenute in buste prive di timbro è stata presa in ossequio a una richiesta di ufficiali dell’Akp, il partito di governo del presidente Erdogan, allo scopo di «tutelare il diritto costituzionale del voto», a dispetto delle disposizioni contenute nell’articolo 98 della legge elettorale.

L’Osce ha dichiarato di non aver avuto ancora modo di confrontarsi con lo Ysk in merito all’accaduto, ma di essere a disposizione di ogni istituzione, partito e organizzazione fino al 22 aprile, quando terminerà ufficialmente la missione di osservazione in Turchia. Il rapporto definitivo sarà presentato tra otto settimane.

I PARTITI D’OPPOSIZIONE promettono battaglia contro la sequela di irregolarità che ha caratterizzato il referendum. Il partito repubblicano Chp ha già chiesto l’annullamento del referendum e sta preparando ricorso contro le decisioni dello Ysk. Sulla stessa lunghezza anche il partito di sinistra Hdp che insiste sulla propria opposizione al fallimentare progetto antidemocratico dell’alleanza Akp-Mhp e rilancia un messaggio di speranza: «Nonostante tutto, abbiamo almeno 24 milioni di no».

Il referendum sancisce la fine di un’epoca per questo paese: addio al sistema parlamentare e via libera alla riforma presidenziale che innalzerà Erdogan al più alto livello dello stato, il filo di ogni istituzione collegato alla sua diretta volontà.

UN’OCCHIATA ALLA MAPPA elettorale rende evidente come la spaccatura del paese sia sempre più profonda. Fedeli a Erdogan le regioni rurali del cuore dell’Anatolia e quella del Mar Nero, zona di origine del presidente. Riunite sotto lo stendardo del No troviamo, una volta tanto, sia le regioni occidentali kemaliste sia le regioni del sudest curdo; soprattutto troviamo quasi tutte le grandi città del paese, a cominciare da Istanbul e Ankara, in cui l’Akp perde un confronto elettorale per la prima volta da molto tempo. È in queste città che si assiste a sparute proteste in strada e alle finestre, dove pentole e coperchi sono battuti in memoria del fermento di Gezi.

EPPURE PESANO sulle masse i mesi di repressione continua e a coloro che s’illudevano di un clima conciliatorio una volta che Erdogan avesse infine realizzato il suo sogno politico. Bastino le due prime mosse del governo, che il giorno dopo le consultazioni estende per altri tre mesi lo stato di emergenza, mentre Erdogan rinnova la promessa di reintrodurre presto la pena capitale.