Alcuni romanzieri sembrano comporre intere pagine al solo scopo di nascondervi – tra le volute di una prosa apparentemente svagata – gli indizi nei quali si annida il senso più intimo della propria opera. La narrativa di Emmanuel Bove – i cui personaggi si raccontano oscillando tra reticenza e dolente delicatezza del tono – propone una coerente poetica del «fuoricampo», nella quale assai poco viene detto circa il contesto e i sommovimenti psichici che attraversano i protagonisti.

Succede poi che in alcuni, selezionatissimi passaggi, il narratore si lasci andare a un commento su qualcuno, o a proposito di una vicenda nella quale egli stesso si trova invischiato, rivelando tutt’a un tratto una lucidità sconvolgente, quasi insostenibile, ciò che rende i libri dell’autore francese luminosi di una specifica intelligenza fatta di precisione, di misura, e di una singolare compostezza ammirata, non casualmente, da diverse generazioni di grandi scrittori: Rilke, Beckett («ha un senso straordinario per il dettaglio», scrisse di lui l’autore di Molloy) e, più recentemente, Enrique Vila-Matas e Peter Handke, il quale ha tradotto Bove in tedesco e ha dato eco a una sua generale riscoperta editoriale in Europa negli ultimi decenni. Una ammirazione che si estende alla persona stessa di Bove, con riferimento alla sua figura di artista marginale, della quale Handke stesso ebbe a scrivere, con qualche enfasi: «Dovrebbe essere il santo patrono degli scrittori (puri), più di Kafka e alla stessa stregua di Anton Čechov e Francis Scott Fitzgerald».

In Italia Bove è noto soprattutto per il piccolo classico I miei amici – che da un trentennio resiste nel catalogo Feltrinelli – anche se molte delle sue opere sono state di recente tradotte in italiano, soprattutto da piccole case editrici, complice il fatto che dopo la sua morte (nel 1945) sono stati ritrovati a Parigi diversi inediti, poi diventati pubblicazioni postume. Tra queste ultime, la nuova casa editrice Ventanas propone Memorie di un uomo particolare (traduzione di Paola Vallatta, pp.229, € 14,00), finito di scrivere nel 1939 ma edito in Francia nel 1987, e adesso per la prima volta in Italia.

Tra le pagine delle Memorie si muove Jean Marie, che a uno sguardo superficiale si direbbe incarnare la figura romanzesca ricorrente dell’uomo che vive solo nella sua camera ammobiliata a Parigi, si arrabatta chiedendo soldi agli amici, e non pretende dalla vita nient’altro che «un posto tutto suo tra gli uomini». Narrato in prima persona, il racconto passa dalla parte iniziale – dove si parla di un prestito finanziario che sembra non arrivare e di una persona fidata che tratta malamente il protagonista, in una Parigi sbiadita eppure inquadrata improvvisamente da alcune, sorprendenti messe a fuoco – a un blocco centrale più corposo, e più scopertamente autobiografico, con una drammatica analessi che riporta Jean Marie alla sua infanzia, lontano dalla capitale, agli albori del Novecento.  Figlio di una donna povera, è nato dalla violenza che la ragazza ha subito da un militare. Cresciuto poi in contesti più o meno benestanti, Jean Marie comincia a coltivare da subito quel senso di estraneità a tutto e tutti che lo accompagnerà per la vita: né povero né borghese, né cittadino né campagnolo, da grande non cerca mai davvero un lavoro, prediligendo una sorta di pensosa indeterminatezza, che lo porta a cercare, e poi bruscamente rifiutare, la compagnia degli altri.

Nella sua complessità, il distante protagonista di Bove non assomiglia allo «straniero» di Camus, del quale non possiede l’intensità: resta a distanza dalle cose con gesto svogliato, e tuttavia sembra patirne a ogni passo, costruendo fantasie di requie e elucubrando su possibili svolte esistenziali fino all’ultimo rigo del libro. Semmai, in Jean Marie si mostrano alcuni tratti di velleitarismo che rimandano ai personaggi di Flaubert, al Frédéric dell’Educazione sentimentale, e persino agli apocalittici Bouvard e Pécuchet. Ma nella voce del protagonista delle Memorie non c’è falsetto, né impostura: incalzano piuttosto le domande – il testo è disseminato di una dolorosa messe di punti interrogativi – i rimorsi,  i momenti  in cui un impercettibile movimento del mondo che sfila davanti ai suoi occhi sembra suggerire una soluzione a tutti i problemi, salvo poi dileguarsi nel nulla («È notte fonda dietro l’École militaire. Ma ecco che c’è un po’ di luce. Non posso essere amato come sono?»).

In Bove – e Memorie di un uomo particolare ne è un esempio perfetto – c’è una radicale tendenza alla devitalizzazione dello spazio narrativo (Beckett!) che tuttavia, anziché confinarsi entro le trincee di una affabulazione sconsolata e irraggiungibile, lascia intravedere, da qualche parte sullo sfondo, o più facilmente del tutto esclusa dalla esile cornice romanzesca, una vitalità irriducibile: distante, certo, ma non ancora fuori dalla portata dell’uomo che, scrivendo, racconta se stesso.