Emergency in Afghanistan, una guerra alla volta
Reportage A un anno dalla morte di Gino Strada, una visita al presidio di Emergency, che non è mai andata via dal Paese
Reportage A un anno dalla morte di Gino Strada, una visita al presidio di Emergency, che non è mai andata via dal Paese
«La guerra è essa stessa terrorismo legittimato, ingiustizia assoluta, violazione irrimediabile di ogni diritto. Qual è il senso della guerra, contro chi si sta combattendo, se si dichiara di combattere contro dittatori e terroristi e poi il risultato finale è che nove volte su dieci è un civile a perdere la vita? Quale medico prescriverebbe un farmaco che nove volte su dieci uccide il paziente? In un ospedale, quel farmaco verrebbe proibito, e chi si ostinasse a somministrarlo verrebbe denunciato.»
Così scrive Gino Strada nel suo ultimo libro pubblicato postumo, Una persona alla volta, Feltrinelli, 2022, «non un’autobiografia, un genere che proprio non fa per me, ma le cose più importanti che ho capito guardando il mondo dopo tutti questi anni in giro», un manifesto «non pacifista ma conto la guerra» e per il diritto «più fondamentale», quello della salute, non privilegio per pochi ma per tutti, da esseri umani «liberi e uguali». Idee semplici, per niente facili, basate sempre sulle «radici che mi hanno tenuto saldo ovunque sia andato nel mondo: l’antifascismo, la politica, la militanza, la passione per la medicina.»
A quasi un anno dalla sua morte, il 13 agosto, e dalla presa di potere da parte dei talebani, il 15 agosto, sono tornata in Afghanistan per farmi raccontare dall’unica Ong italiana che non è mai andata via e unica organizzazione internazionale presente in Panshir, la Valle di Ahmad Shah Massoud e dei mujaheddin, cosa sta succedendo in un Paese in cui non c’è libertà di stampa e le notizie girano per passaparola e sui social senza possibilità di verifica? Emergency è in Afghanistan dal 1999. I suoi 3 Centri chirurgici per vittime di guerra di Anabah nel Panshir (dove sono anche la maternità e il pediatrico), di Kabul e di Lashkar-Gah, nell’Helmand dell’etnia pashtun, roccaforte talebana e produttrice, insieme a Kandahar, del 90% dell’oppio e dell’eroina mondiali, sono un osservatorio importante. Sono arrivata da Islamabad con un piccolo aereo con 19 posti – a bordo eravamo 3 passeggeri. Il volo interno Lashkar-Gah – Kandahar – Kabul è stato cancellato per 3 giorni: ho il forte sospetto perché sarei stata l’unica passeggera. All’aeroporto di Kabul i talebani non hanno fatto in tempo, o non si sono curati, di rimuovere la vecchia insegna a cui manca solo una D, magari caduta da sola: Hami Karzai International Airport. Gli unici voli internazionali sono quelli del servizio aereo umanitario delle Nazioni Unite. Come non si sono accorti di un murale di Massoud un po’ nascosto in città, scampato alla loro furia iconoclasta. Mai vista Kabul senza traffico e l’autista mi spiega subito perché: oltre ai tanti che sono scappati, il prezzo della benzina è triplicato.
Guerriglia
Il 3 settembre il Governatore della provincia ha fatto una visita in ospedale, ha distribuito soldi ai pazienti e ha dichiarato che sarebbe stato ignobile arrendersi e dar via l’Afghanistan senza combattere. Il giorno dopo gli studenti coranici hanno preso la città di Anabah, senza incontrare nessuna resistenza. Non avendo le forze per scontri frontali, i mujaheddin si sono arroccati in montagna, da dove combattono con azioni di guerriglia. I racconti su quanto sta accadendo nella Valle, per 20 anni un’oasi di pace, sono tremendi. Le case vengono controllate per capire se ci sono armi o legami con la resistenza. Le famiglie devono nascondere o distruggere le foto, i ricordi, i messaggi: tutta una parte della loro vita. Si parla di sparizioni di persone, di esecuzioni sommarie, di rappresaglie. «Sono entrati in casa dei miei vicini. Hanno chiesto i soldi, minacciando di uccidere un ragazzo universitario di 22 anni, che era presente con la nonna. Quando hanno avuto i soldi l’hanno ucciso lo stesso, con la motivazione che suo fratello era stato un poliziotto del governo precedente» mi racconta uno dei tanti panshiri scappati a Kabul che preferisce restare anonimo. Il poliziotto era il tipico lavoro del governo precedente. Secondo la ginecologa Keren Picucci, che vive ad Anabah da 9 anni, la maggior parte degli uomini hanno rapporto o fanno parte della resistenza. È un’intera popolazione dunque a rischio. Stefano Sozza, country director di Emergency, conferma che ci sia un’investigazione in corso da parte dello Special Rapporteur sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan, Richard Bennett, su esecuzioni sommarie fatte dai talebani in Panshir e altre province del Nord. Per questioni di sicurezza non sono potuta andare ad Anabah. L’intervista con Keren si è svolta su Skype da Lashkar-Gah, le altre testimonianze le ho raccolte a Kabul.
Donne con la scorta
E le donne? Diciamolo subito chiaramente, dopo fiumi di inchiostro versati inutilmente ancora sul burqa. L’ordinanza di maggio di coprire il volto, con l’uso del niqab e non necessariamente del burqa, non ha cambiato sostanzialmente nulla. Nelle zone rurali le rare donne che si vedevano per strada erano sempre tutte col burqa. A Kabul ma anche nella tradizionale Lashkar-Gah ora si vedono donne da sole, con i figli, o accompagnate dal mahran, una scorta maschile che può essere il marito o il fratello, altro obbligo imposto dai talebani. Sono tutte a testa coperta, ma non necessariamente a viso coperto. Non ci sono controlli effettivi e in ogni caso la punizione spetterebbe ai mariti o ai padri o ai fratelli. C’è chi scherzando dice anche che vorrebbe uscire senza velo per fare un dispetto a questi. Scherzi a parte, il burqa è l’ultimo problema delle afgane. I problemi reali, gravissimi, in parte non dipendono dai governi che cambiano, ma dal sistema tradizionale radicalmente patriarcale che le costringe spesso a matrimoni forzati e precoci, e le considera dei «bambinifici».
Silvia Triantafillidis, infermiera, mi ha raccontato di una paziente di 17 anni sgozzata dal fratello per essere stata scoperta con un ragazzo, e di un’altra, che ha ricevuto 15 coltellate, anche lei dal fratello, per aver osato rifiutare l’uomo che la famiglia aveva scelto come suo marito. Si chiama Mursal, ha 20 anni, l’ho vista in corsia, è bella come una bambola di porcellana di inizio Novecento e naturalmente non si è fatta fotografare. A questi problemi, ora si aggiungono l’estrema povertà, la chiusura delle scuole secondarie e il divieto di lavorare tranne che nel settore della sanità e della scuola, annientando la speranza in un futuro migliore. La disoccupazione di donne e uomini – tutti gli impiegati per il governo precedente, l’hanno perso, e in molti casi non possono cercarne un altro rischiando di essere accusati di essere anti-talebani – la siccità peggiore degli ultimi 30 anni, l’ingiusto congelamento dei patrimoni nelle banche americane, il collasso delle banche afgane, l’aumento del costo dei beni di prima necessità fanno sì che da poveri siano diventati poverissimi. Chi ha potuto è andato via – c’è stata una gravissima fuga di cervelli perché chiaramente le persone specializzate hanno avuto più mezzi per poterlo fare – e chi è rimasto vorrebbe andare via. La salute materna è in condizioni disperate. Le donne non vanno negli ospedali perché non hanno i soldi, se lo fanno è quasi sempre troppo tardi. Keren mi ha raccontato della zia di una loro ostetrica che per andare a partorire da loro, è partita dalla provincia di Kapisa con la sorella, la madre dell’infermiera, e un autista a pagamento. L’uomo non si è fermato a un check-point e i soldati hanno sparato. A quel punto ha perso la testa: è tornato verso casa prima di decidersi a proseguire per l’ospedale. Quando infine sono arrivati, la madre dell’ostetrica era morta, e la zia ha partorito in stato di shock. Lo stesso vale per i bambini del pediatrico: se arrivano, è quasi sempre troppo tardi.
Stefano Sozza, orgoglioso di come lo staff abbia risposto velocemente, con empatia e voglia di contribuire al terremoto del 21 giugno – che ha fatto tra gli 800 e i 1000 morti – con l’apertura della clinica a Barmal nella provincia di Paktika, non fa in tempo a chiudere quell’emergenza, che si trova già focolai di colera alle porte dell’ospedale di Lashkar-Gah. E, a proposito di guerra, mi passa un report sulla Grande Assemblea degli Ulema tenuta a Kabul dal 30 giugno al 2 luglio. Pur in un ambito in cui si è chiesto lo sblocco dei fondi congelati nelle banche americane e l’approvazione della comunità occidentale, e ci si è detti impegnati ad affrontare le tematiche dei diritti delle donne e delle minoranze, la massima autorità talebana, lo sceicco Haibatullah Akhundzada, ha dichiarato che la jihad, la guerra santa contro gli infedeli continua, che l’Afghanistan non si piegherà alle idee occidentali e che dovrebbero essere ripristinate le pene corporali per i crimini contro Dio e gli uomini.
Lashkar-Gah, roccaforte talebana, in guerra per 20 anni contro il governo precedente, ora è in pace. «È li che probabilmente abbiamo i ’coltelli più fini’ della chirurgia di guerra del mondo, per l’eccellenza della formazione e per quanto hanno praticato» dice Stefano. Ma una pace sempre con moltissimi feriti per le mine e gli ordigni che continuano ad esplodere, per la criminalità, un altro tipo di guerra, e per un modo di vivere non protetto, che ha perso ogni senso del pericolo. «Anche se questa è zona pashtun, i combattimenti sono stati aspri. Quando i talebani sono entrati in città, siamo rimasti in ospedale per 17 giorni fino al 15 agosto. Sparavano e soprattutto lanciavano razzi da una parte all’altra del fiume. Uno è atterrato nel nostro giardino, per fortuna in una zona senza persone. Ma non siamo mai stati minacciati: l’aver curato bene e gratis tutti senza mai chiedere a quale fazione appartenessero ci ha protetti. Abbiamo fatto dei turni di 24-48 ore per coprire l’assenza dei colleghi che erano impossibilitati a raggiungere l’ospedale e assistere tutti i feriti che arrivavano. Tutto il personale è stato estremamente disponibile, senza chiedere niente in cambio. Ho visto infermiere che si offrivano spontaneamente per assistere anche pazienti uomini e per rimanere a dormire qui per qualche giorno. È stata una grande soddisfazione» racconta Leila Borsa, medical coordinator dell’ospedale.
Il dottor Khushal, uno dei ’coltelli più fini’, lavora nel Centro chirurgico dal 2004. «Il 13 agosto i responsabili dello staff medico dei talebani sono entrati nel nostro ospedale nel pieno rispetto delle nostre regole, senza armi, e ci hanno detto che eravamo salvi. Ora in città la sicurezza è meglio di prima. C’è molta criminalità che non dipende dal cambio di governo: ci sono sempre stati conflitti legati soprattutto alla spartizione e all’irrigazione della terra. I talebani e i criminali rispettano la nostra neutralità e la nostra indipendenza. Ora» aggiunge, quando gli chiedo della sua famiglia «sono afflitto da un gran problema. Ho un figlio maggiore e quattro figlie, di cui la più grande ha 16 anni, e non può andare a scuola. Era molto brava, e ora è depressa. Se voglio che continui a studiare dobbiamo lasciare il Paese. Ma sono molto legato alla mia famiglia di origine, alla mia cultura e al mio lavoro. Però, anche il destino di mia figlia, e delle altre tre che cresceranno, è importante. Non so proprio cosa fare, è un mio pensiero fisso».
In Una persona alla volta il dottor Gino scrive che «Ogni appello all’umanità e alla ragionevolezza [contro l’intervento dell’Italia accanto agli USA in Afghanistan] cadeva nel vuoto». «Le reazioni erano per lo più accuse di essere traditori dell’Occidente e amici dei terroristi. Al massimo, potevamo aspirare al rimbrotto paternalistico di chi ci trattava come bambini che vogliono sedere al tavolo dei grandi E poi c’erano quelli che: «E allora che cosa avreste fatto voi contro i nazisti?».
Armi
Il dottor Geert Morren partì ingenuo nel 1989 per il Sudafrica, giusto poco prima della liberazione di Mandela, ma aprì velocemente gli occhi sul razzismo, sulla povertà, sulla mancanza di cura e anche sulla compassione e su come si poteva curare accademicamente col minimo dei mezzi a disposizione. Altro ’coltello fine’ e grande essere umano incontrato a Lashkar-Gah, gli chiedo di parlarmi non delle guerre afgane, ma della guerra: «Spendiamo 50.000 euro al secondo per le armi. Quando si producono, le armi si vendono e poi si usano. È un sistema economico che prepara la guerra, e questo succede da centinaia se non da migliaia di anni. Nella mia breve vita non ho visto fondamentali miglioramenti nel modo in cui vediamo la guerra. La consideriamo giusta o sbagliata a seconda delle nostre posizioni e dei nostri interessi. Fino a che non metteremo profondamente in discussione la violenza degli uni contro gli altri, continueremo a fare guerre. Il problema è estremamente complesso perché va affrontato anche personalmente, riconoscendo e mettendo in discussione la violenza che abbiamo dentro noi stessi, quella violenza che è il nostro lato oscuro, che la guerra non fa che mettere in luce. Io credo che a livello spirituale questa sia la strada, e che sia molto difficile da percorrere. Questo però non vuol dire che dobbiamo restare passivi fino a che non abbiamo raggiunto una profonda evoluzione. Penso che possiamo lavorare in modi paralleli, da una parte per l’arricchimento interiore e dall’altra socialmente. Emergency è anche testimone della violenza delle persone che non hanno voce, civili o militari che siano, perché spesso i militari non sono nella posizione di poter scegliere». Mi viene in mente la descrizione di Keren dei talebani arrivati feriti all’ospedale chirurgico di Anabah, «ragazzi scalzi, senza coperte, allo stremo delle forze. In sala operatoria si vedeva che i loro intestini erano vuoti come chi non ha mangiato da giorni». «Abbiamo il privilegio di curare le vittime di guerra,» continua il dottore «ma abbiamo anche un forte obbligo di parlare delle profonde sofferenze che la violenza crea nelle vite delle persone, di cui a chi decide di fare le guerre non importa nulla. E sicuramente non dobbiamo mai, per nessuna ragione, armare gli altri per tentare di risolvere i problemi».
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