«In Afghanistan c’è stata una guerra provocata da un’invasione e un’occupazione durata 20 anni. Per portare la democrazia si è lacerato e distrutto, per poi andarsene in quattro e quattr’otto chiudendo il rubinetto dei fondi di un Paese flagellato anche per la nostra presenza. È motivo per rimanere con ancora più attenzione e cercare di allentare i nodi di una matassa aggrovigliata anche da noi, invece di voltare le spalle e dire ’sono problemi vostri’ in modo del tutto irresponsabile. L’imperativo umanitario impone di scegliere da che parte stare».
A parlare del secondo anno talebano da Kabul è Stefano Sozza, direttore del programma di Emergency in Afghanistan, intervistato questa volta a distanza.

Stefano Sozza, direttore del programma Afghanistan di Emergency, 2022, foto di Laura Salvinelli

Fra le promesse mancate sui diritti umani da parte dei talebani, e le promesse mancate sugli aiuti da parte dell’Occidente, gli afgani sono costretti alla totale indigenza. Quali sono i dati più affidabili e aggiornati su quella che il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha definito la «crisi umanitaria più grave del mondo»?
Le fonti che usiamo come riferimento sono quelle delle Nazioni Unite. Nell’incontro internazionale organizzato dall’ONU a Doha a maggio si parlava di 6 milioni di afgani a un passo dalla carestia, del 97% della popolazione sotto la soglia della povertà, e di circa 28 milioni cioè 2/3 del totale bisognosi di assistenza umanitaria. Peraltro, questi dati stanno peggiorando velocemente: secondo l’Humanitarian Response Plan se a gennaio erano 28,3 milioni i bisognosi di assistenza umanitaria, a giugno erano mezzo milione in più. Questa gravissima crisi ha varie cause che si intrecciano fra loro: metà della popolazione è esclusa dall’istruzione e dal lavoro, l’inflazione continua a aumentare, la disoccupazione è altissima, la popolazione è sempre più povera, il sistema pubblico nazionale è quasi collassato, alcuni gruppi etnici sono a forte rischio di discriminazione, repressione e violenza. Si stima che ci saranno 7 milioni e mezzo di persone senza accesso al sistema sanitario di base e salvavita se i finanziamenti internazionali, che rappresentavano il 75% della spesa pubblica e il mantenimento del sistema sanitario, non verranno ripristinati come prima del 15 agosto 2021.

Sfollata interna, provincia di Herat. Beneficiaria di un progetto rurale dell’ex GVC, ora WeWorld Onlus, 2012, foto di Laura Salvinelli

Inoltre, l’Afghanistan è uno dei Paesi più minati al mondo: da noi continuano ad arrivare pazienti che hanno calpestato o hanno giocato con mine o ordigni improvvisati che sono esplosi, persone che muoiono o rimangono invalide diventando un peso per le loro famiglie. In quanto agli attacchi jihadisti – mentre nel 2022 abbiamo ricevuto più di 380 pazienti a seguito di 29 esplosioni e/o attacchi armati e l’anno è iniziato male con l’arrivo di 47 vittime del grande attentato al Ministero degli affari esteri – da fine marzo, lo dico facendo gli scongiuri, sono finiti.

Nonostante le promesse dell’accordo di Doha (il trattato di pace fra i talebani e gli USA del 2020) gli studenti coranici hanno emesso una serie di editti e decreti liberticidi, in particolare contro le donne. Le hanno bandite dalla vita pubblica: dal lavoro, tranne poche eccezioni, dagli spazi pubblici, parchi, palestre e piscine, dai programmi televisivi e soprattutto, le uniche al mondo, dall’istruzione secondaria e superiore, in alcune province da oltre la terza classe della primaria. Il «rapporteur» delle Nazioni Unite sui diritti umani ha chiesto alla Corte penale internazionale se non sia in corso un crimine di persecuzione di genere. Quanta preoccupazione e quante proteste effettivi ci sono per questi divieti?

La preoccupazione è totale in quanto trasversale a tutta la società. La guerra contro le donne è contro tutta la popolazione ed è insostenibile. Il divieto dell’istruzione è quello che preoccupa di più, perché priva il Paese del suo futuro, a maggior ragione perché qui solo le donne possono essere in contatto con le donne. Chi curerà le pazienti quando non ci saranno più dottoresse? Il nostro capoinfermiere Zabi ha comprato una lavagna e i gessetti e incaricato la figlia più grande di insegnare alla più piccola. Quando è a casa le interroga e se sono brave le premia. Le coraggiosissime donne che scendono in piazza vengono disperse, bastonate, incarcerate e messe a tacere. Proteste più grandi non si possono fare, perché vige un controllo forte e capillare. Ma c’è una grossa zona grigia fra i divieti, che vengono dalla guida suprema, lo sceicco Hibatullah Akhundzada, e la loro implementazione, che dipende da chi governa effettivamente sul territorio. La questione delle donne è fondamentale perché è sulla relazione fra le fazioni dei talebani kandahari, più ortodossi, e degli Haqqani, più moderati, che si gioca la stabilità del Paese e il suo riconoscimento da parte della comunità internazionale. Ed è solo da quella relazione che potrebbe riaccendersi un conflitto, ora che la resistenza del Nord è ferma, l’ISIS-K non destabilizza più come prima e le opposizioni sono inesistenti.

Buzkashi. Herat, Afghanistan, 1391 (2013) (ph. Laura Salvinelli)

Circa 10 miliardi di dollari della Banca Centrale Afgana sono bloccati nelle banche occidentali. Il congelamento dei fondi e le sanzioni contro un governo non riconosciuto dalla comunità internazionale aggravano una popolazione già stremata da 40 anni di conflitti e che ora muore di freddo e di fame o perché non può curarsi. Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, lo scorso anno su più di 270.000 afgani rifugiati nei Paesi confinanti bisognosi di protezione permanente, l’Unione Europea ne ha accolti 271: lo 0,1%. Credi sia giusto ricordare anche le responsabilità e le promesse non mantenute dell’Occidente?
Assolutamente sì. Come si fa ad abbandonare a sé stesso un Paese che si è occupato per 20 anni non per portare democrazia ma per i propri interessi, e arrivare a bloccare le sue rimesse nelle proprie banche? Come ci si può dimenticare di migliaia di persone che hanno lavorato per governi che con un colpo di coda, in modo rocambolesco, hanno imbarcato il numero massimo di persone, e sono partiti con i disperati aggrappati fuori dagli aerei, lasciando a terra tutti gli altri? Per di più, molto probabilmente dall’anno prossimo c’è il rischio che l’Afghanistan non verrà più considerato un’emergenza prioritaria e riceverà ancora meno fondi. Purtroppo questo Paese per ottenere attenzione deve essere in guerra. Mentre è proprio adesso, con più sicurezza e meno corruzione, che bisognerebbe pianificare e assistere, perché in guerra non si può far altro che tamponare, salvare più vite possibili, dare cibo e coperte e un riparo a chi non li ha. Per noi che siamo qui dal 1999 il voltare le spalle e la sua rivendita non veritiera ai media tranne eccezioni, l’abbandono che si traduce nei flussi migratori e la mancata accoglienza sono da una parte molto deprimenti, dall’altra ci spingono a restare e fare meglio il nostro lavoro.

In questa situazione i vostri ospedali sono ancora più necessari. Come riuscite a tenerli aperti, soprattutto la maternità, completamente gestita da donne?
In questi 24 anni ci siamo guadagnati il rispetto dovuto all’aver sempre lavorato bene e gratis per tutti. Abbiamo portato avanti l’idea di Gino Strada in un contesto che muta velocemente senza scardinarla, e questo gli afgani lo sanno bene, perché tutti hanno un amico o un parente che è stato curato da noi. La maternità va avanti perché, anche se in modo non formalizzato, per ora il Ministero della salute pubblica ha escluso le donne che lavorano nel suo settore dalle restrizioni. La nostra linea è di impiegarne il più possibile. Mantenere operativi 3 grossi ospedali e 42 cliniche, dare il lavoro a più di 1.700 persone, alla luce della riduzione o sospensione dei fondi è preoccupante, ma ci stiamo adoperando per riuscire a coprire queste spese anche per i prossimi anni. È un dovere che abbiamo non solo per i nostri pazienti, ma anche per il nostro staff che ha un reddito in un momento in cui c’è un’altissima disoccupazione e che non vogliamo lasciare per strada.

Emergency è in Afghanistan dal 1999 quando, all’epoca della guerra tra l’Alleanza del Nord comandata da Ahmad Shah Massoud e i talebani, trasformò una caserma del Panshir, la Valle dei mujaheddin, nel suo primo Centro chirurgico per vittime civili di guerra.

Gestisce 3 Centri chirurgici, una maternità che assiste 600 parti al mese, 42 Posti di primo soccorso sparsi in 11 province, di cui 6 nelle prigioni. Ha curato più di 8 milioni e mezzo di pazienti. Ha formato nuovi medici e personale sanitario e al momento dà lavoro a più di 1.700 afgane e afgani. Come diceva sempre Gino Strada, «si tratta di scegliere da che parte stare».