Emanuele Felice: «Con Schlein il Pd è una normale forza di sinistra europea»
Emanuele Felice, docente di politica economica alla Iulm di Milano, già responsabile economico durante la segreteria Zingaretti componente della direzione Pd. Cottarelli e altri sostengono che il suo partito stia virando verso l’estrema sinistra. Condivide?
Estrema sinistra? Ma non diciamo sciocchezze. Schlein sta portando il Pd nella direzione di tutti i partiti di sinistra dell’occidente, che si battono contro le diseguaglianze, per i diritti del lavoro e per l’ambiente. Viviamo però ancora il retaggio di una stagione in cui queste idee erano molto minoritarie nel centrosinistra italiano. Una stagione in cui imperavano concetti come la flessibilità del lavoro, l’ambiente non era al centro dell’agenda politica e la crescita era vista come alternativa alla riduzione delle diseguaglianze. Ora il compito della segreteria è costruire una nuova narrazione culturale, che possa diventare egemone, che spieghi come ambiente e innovazione procedano insieme, che i buoni salari possono aiutare la crescita. Una battaglia che, temo, sarà molto più dura rispetto a vincere un congresso.
Perché le idee di Blair sono ancora così popolari nel Pd?
Perché dagli anni 90 non abbiamo avuto in Italia una vera cultura socialista di sinistra. Molti eredi del Pci (non tutti), privi di questa cultura, hanno abbracciato il neoliberismo con l’entusiasmo dei neofiti. Poi c’è una ragione strutturale: il peso del debito pubblico che pone l’Italia in una condizione di debolezza internazionale. Questo ha spinto a fare “riforme” che piacevano ai mercati per evitare crisi finanziarie. Finché l’Ue non si deciderà fare politiche diverse, e cioè massicci investimenti su conversione ecologica e lotta alle diseguaglianze, questo vincolo non si allenterà. Il Pd con i partiti di sinistra di Francia, Germania e Spagna deve battersi con forza per ottenere questa svolta in Europa, che vuol dire anche politiche sociali per fronteggiare i costi della svolta green.
L’addio di Cottarelli segna la fine dell’illusione tecnocratica del Pd, passata per Monti e Draghi?
Ai tempi di Monti gli effetti di alcune scelte non si conoscevano ancora, Draghi in fondo ha gestito una fase relativamente espansiva, Cottarelli, che apprezzo molto per la sua scelta di dimettersi dal Senato, invece rappresenta a pieno titolo il retaggio di questa vecchia impostazione culturale, che pensavo superata con la segreteria di Zingaretti, e che invece è poi riemersa. L’idea cioè che l’obiettivo delle riforme fosse adeguare l’Italia ai dettami della globalizzazione neoliberale. Ora il tema è la conversione ecologica, siamo usciti dal paradigma della crescita senza condizioni.
Per entrare in quello della decrescita?
Chi lo sostiene pecca di pigrizia culturale. Parlare di keynesismo green significa creare lavoro in settori nuovi, innovare, il contrario della decrescita. I critici di Schlein, anche dentro il Pd, paiono fermi agli anni ’90. Il punto adesso è la qualità della crescita.
Con questi abbandoni vede il rischio di smarrire l’identità di partito plurale?
Francamente no. Per la mia esperienza, i problemi del Pd non erano le correnti in generale, ma una corrente, quella degli ex renziani, e poi certi potentati locali. Ora mi pare che l’area ex renziana si stia destrutturando, dopo gli addii di Marcucci e Borghi, e che Schlein stia affrontando di petto il tema dei potentati, soprattutto al sud (e mi riferisco a De Luca). E infatti il partito cresce nei sondaggi, rimanendo plurale, con una forte componente cattolica e liberalsocialista.
Non teme altri addii?
Che se ne vada una parte di ceto politico non mi pare grave: dagli ex renziani in questi anni ho visto molte più polemiche politiciste che contributi di pensiero. Questo non vale naturalmente per Cottarelli.
Insisto. Non rischiate di perdere voti moderati, quelli delle ztl che hanno sempre alimentato il serbatoio del Pd?
L’idea di un partito che tiene insieme tutto e il suo contrario mi pare archiviata. Esistono imprese, anche dentro Confindustria, e penso a «Elettricità futura», che sono all’avanguardia nell’innovazione tecnologica e sociale: con questi mondi sarà facile costruire un dialogo. Se qualcuno non si riconosce in politiche di centrosinistra ed è ancora legato al paradigma neoliberale, il suo approdo naturale è un partito di centro.
Cottarelli nella sua lettera ha contestato le posizioni del nuovo Pd su Jobs act, flessibilità del lavoro e nucleare.
Il Jobs act e la flessibilità hanno incentivato il declino dell’Italia, svalutando il lavoro, lo riconoscono diversi studi. Su questo peraltro si è aperta una riflessione in tutti i partiti di sinistra dell’occidente. Il Pd è nato all’apice della stagione neo-liberale, c’era l’illusione che bastasse amministrare l’esistente e che l’economia mondiale andasse bene così com’era. Ora i liberal americani si sono spinti così avanti nella critica alla globalizzazione finanziaria da ritenerla incompatibile con la democrazia. E invece in Italia, quando mesi fa abbiamo tentato di adeguare il manifesto dei valori del Pd al pensiero contemporaneo, ci sono state barricate come se volessimo instaurare il comunismo. Lo stesso vale per il concetto di «merito», pure evocato da Cottarelli, che è figlio di una visione ideologica di trent’anni fa. Una forza progressista moderna non parla di meritocrazia, ma di come ampliare l’accesso alle competenze anche ai ceti più deboli, aumentando le spese nell’istruzione e nel welfare. Il Paese cresce se si riattiva l’ascensore sociale. Chi sostiene che queste idee siano da sinistra massimalista, o chi di fronte alla crisi ecologica evoca il nucleare invece di investire adesso sulle rinnovabili, si colloca fuori da quello che è il minimo sindacale per una forza progressista moderna
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