«Di fronte al possibile annientamento del nostro pianeta, alcune forme di conoscenza non sono all’altezza». Nel volume Narrazioni dell’estinzione (add editore, pp. 304, euro 20,90, traduzione di Vincenzo Latronico) di Elvia Wilk, scrittrice generosa di intersezioni tra letteratura, arte contemporanea, tecnologia e politica, la domanda da cui prende avvio il ragionamento è una interrogazione del presente, del narrare appunto ma anche della misura che questo narrare ha nel mondo nell’epoca della sparizione. Il metodo dell’auscultazione è transdisciplinare, l’esito è un ibrido che si sposta dal saggio al memoir, dall’inchiesta intorno al corpo della scrittura fino a coinvolgere quello della stessa autrice.

Se nel suo esordio letterario Oval (2019, pubblicato in Italia per Zona42 nella traduzione di Chiara Reali) troviamo gli elementi che maggiormente interessano Elvia Wilk e in cui in un futuro – che è già adesso – una coppia si misura con le perversioni neoliberiste e il relativo collasso, il cui dato immarcescibile resta l’impossibilità di praticarlo del tutto, in Narrazioni dell’estinzione (il cui titolo originale è Death by Landscape, in omaggio al racconto omonimo di Margaret Atwood con cui Wilk apre infatti il libro), la scrittrice (domani ospite al Salone del Libro di Torino, in dialogo con Vincenzo Latronico e Chiara Reali) raduna una congrua serie di scritture e categorie, di generi e suggestioni, per poi cucirli in modo imprevisto e audace a un sapere critico e di sé, femminista e dunque carico di connessioni.

Da Max Fisher prende in prestito il termine weird («strano», associabile a «inquietante» ma diverso da «perturbante») che le serve per dire lo spazio esterno al di là della esperienza; dalla sua raffinatezza di lettrice onnivora restituisce invece l’inventario in un testo che, almeno nella prima parte, assembla materiali diversi – dai film ai romanzi, dai racconti ai trattati scientifici, così come dai giochi di ruolo ai quadri e ad altre forme di arte – descrivendo un panorama popolato di scrittrici, e qualche scrittore, adeguate da anni alla decifrazione del presente dinanzi alla catastrofe. Intorno a questo sfascio, del pianeta come dei corpi – umani e non – e delle relazioni, Elvia Wilk non si intrattiene, anzi ritiene miope non considerare «i saperi situati», come spiega Donna Haraway, che «richiedono che l’oggetto della conoscenza sia rappresentato come un attore e un agente, non come uno schermo o un terreno o una risorsa». Di quale lutto e di quale perdita si vagheggia nel titolo originale, Morte per paesaggio, lo sgrana raccontando dunque di narrazioni che, da tempo, non ritengono centrale l’umano, fonte del disastro in cui ci troviamo, staccandolo da uno sfondo e dislocandolo per liberare e fare spazio al vivente.

CHE SIANO LETTERATURE definite post-apocalittiche o sistemiche , che siano ascrivibili alla fantascienza (molta cura ha da sempre per Octavia E. Butler), il prisma entro cui rendere parlante la trasformazione, è – prima di ogni lutto anticipato verso il futuro o di ogni claustrofobia antropocentrica – l’affidarsi a un processo, materiale e materico, che va da Doris Lessing a Han Kang e Anne Richter, da Kathe Koja a Karen Russell, Jenny Hval, Anna Tsing e Daisy Hildyard e altri. L’innesto letterario trovato da Wilk si staglia allora in figure letterarie, prettamente femminili, che si radicano nei vasi, si piantano in recinzioni domestiche o si ossessionano davanti ai buchi neri, e in cui vi è l’accoglienza di un germogliare che dia conto dei corpi intesi come pure presenze e di quelli che l’autrice chiama «ecosistemici» perché già in origine interdipendenti, intraspecie ma soprattutto implicati costantemente e condizionati «da ecologie che vanno al di là dell’individuale». Di questo ecosistema fanno parte gli organismi biologici insieme alle formazioni geologiche, le tecnologie e gli altri pianeti, senza traccia di astrazioni.

C’È PIUTTOSTO implicazione (alla memoria traumatica come al disfacimento dei generi) ed è proprio di quest’ultima che Wilk dà conto, dall’incursione mescolata, lessicale ambivalente e appiccicosa, assunta dal desiderio amoroso (convocando Anne Carson) al bleed, che significa sanguinamento, ma anche qualcosa che sconfina dai margini, fino ad arrivare ai suoi personali «attraversamenti», svenimenti a causa di una forma di disturbo polmonare autoimmune non ben identificato.

Insieme a Lee Edelmann, Paul B. Preciado e molti altri, uno dei punti più originali della riflessione di Elvia Wilk, è l’attenzione intratestuale verso la mistica, che va da Margherita Porete a Giuliana di Norwich, Angela da Foligno e Simone Weil. Interessante il distillare anche qui un metodo che consegni al narrare ciò che accade: «ritrovandosi costantemente consapevole della propria penetrabilità fisica, non potendo dimenticare il proprio corpo e i propri confini corporei, ha prodotto una conoscenza empatica riguardo al confronto con l’inconoscibile per secoli. La mistica femminile offre un fondamento per una conoscenza non antropocentrica che non si oppone affatto ad altri tipi di conoscenza». Letture simili, che portano con sé una complessità e insieme una semplicità del trovarsi in connessione alleata con il vivente, sono oggi più inaggirabili che mai.