Elsa Morante e una «Storia» d’altri tempi
Il caso letterario Nel giugno del 1974, cinquant'anni fa, usciva direttamente in edizione economica, da Einaudi, il romanzo più discusso di Elsa Morante: ne scaturì un dibattito letterario, ideologico, e politico senza precedenti, soprattutto sul «manifesto»
Il caso letterario Nel giugno del 1974, cinquant'anni fa, usciva direttamente in edizione economica, da Einaudi, il romanzo più discusso di Elsa Morante: ne scaturì un dibattito letterario, ideologico, e politico senza precedenti, soprattutto sul «manifesto»
Uno scandalo che dura da diecimila anni: è la Storia umana, fatta dai potenti che ordinano le guerre, i massacri, le invasioni, le torture. Anche La Storia, che recitava proprio questo sottotitolo gridato, fu un piccolo scandalo. Fu la sua autrice, Elsa Morante, a volere quella frase in copertina. Se sono passati esattamente ottant’anni dalla liberazione di Roma, ne sono passati cinquanta dalla pubblicazione del libro (20 giugno 1974), nel frattempo divenuto un classico del Novecento italiano. Nel cinquantenario, una serie tv diretta da Francesca Archibugi, con Jasmine Trinca nei panni di Ida, lo ha portato sugli schermi della Rai, a gennaio.
Quando uscì, direttamente in edizione economica per Einaudi, con in copertina una foto scattata in Spagna da Robert Capa virata al nero e all’arancione (l’immagine di un bambino morto!), La Storia provocò un dibattito inaudito, interminabile, e feroce come mai più forse sarebbe successo per un’opera letteraria in Italia. Soprattutto a sinistra, dove la discussione assunse ben presto toni drammatici. Ambientato a Roma tra il 1941 e il 1947, La Storia andava a toccare nodi nevralgici delle vicende del XX secolo, la guerra, le contraddizioni del proletariato e le sue rappresentazioni borghesi, la Resistenza.
Un preciso lavoro saggistico e archivistico è stato fatto da Angela Borghesi, che nel 2019 ha pubblicato L’anno della Storia 1974-1975, nel quale sono raccolti moltissimi contributi usciti sulla stampa: recensioni, critiche, commenti sul libro, che nei primi mesi aveva venduto più di seicentomila copie. Gli interventi, autorevoli o meno che fossero, furono in buona parte sfavorevoli. Scrissero più o meno esplicitamente del romanzo Natalia Ginzburg, Giovanni Raboni, Walter Pedullà, Cesare Cases, Goffredo Fofi, Alberto Asor Rosa, Cesare Garboli, Italo Calvino, Giorgio Manganelli, Alberto Moravia… L’elenco potrebbe andare avanti per molte righe. Ma la vicenda della ricezione della Storia riguarda da vicino anche e soprattutto «il manifesto», sulle cui pagine si avvicendarono molti interventi. Dopo la recensione di Liana Cellerino, Nanni Balestrini, con Elisabetta Rasy, Letizia Paolozzi e Umberto Silva scrissero al giornale e innescarono la polemica. Vi parteciparono, fra gli altri, Rina Gagliardi, Renzo Paris, Franco Rella, Luigi Pintor e Rossana Rossanda. Cinquant’anni dopo (e ottant’anni dopo quel giugno del ’44 in cui i nazifascisti fuggirono da Roma, evento cruciale anche nella Storia), rileggere alcuni passaggi di quanto fu scritto sulle nostre pagine – da chi quel giornale lo dirigeva (e lo aveva fondato), da chi lo leggeva, da chi vi collaborava più o meno saltuariamente – aiuta a farsi una idea, forse, più della famigerata «temperie» dell’epoca che del romanzo di Morante. O no?
Balestrini & Co.
Contro il romanzone della Morante: «(…)Di grandi scrittori reazionari corre voce ce ne siano ancora, certo però non pensavamo ci fosse ancora spazio per bamboleggianti nipotini di De Amicis. (…)Nell’arcipelago di miserabilini della Morante i poveri sono talmente poveri che neppure hanno più il bene dell’intelletto. (…) La Morante è oltre tutto una mediocre scrittrice, e la sua scrittura non riscatta per niente, anzi conferma pesantemente la sua ideologia. Allora, compagni: (…) impariamo a difenderci dai romanzoni».
Gagliardi
La Morante non è marxista. E allora?: «Sono forse cinque anni che «Quaderni piacentini» ha (saggiamente) eliminato l’autoritaria rubrica dei «libri da non leggere». Ma si vede che questo vezzo ha lasciato tracce nella sinistra italiana, compresa quella ex-estremista: così, dopo tanto tempo, quattro compagni, tutti noti «operatori culturali», ci scrivono su un libro un giudizio di stroncatura, premettendo di non averlo letto. (…) La Storia è un romanzo eccezionale, che davvero fa pensare del tutto falsa la opinione corrente secondo cui il romanzo «è morto». Certo, la Morante ha poco a che fare col marxismo: la sua è una visione del mondo chiaramente anarchica, i suoi protagonisti sono i drop out, i bambini, i sottoproletari, i deprivati di ricchezza e di potere. Certo la Morante non è di quegli scrittori che si definiscono «di avanguardia»: non ha meditato a lungo sulla «lezione» di Sanguineti e del Gruppo 63, non partecipa, da quindici anni, al dibattito letterario-politico-mondano, non punta all’escogitazione di linguaggi «nuovi». Scrive con un «suo» linguaggio di assoluta semplicità e liricità, perfettamente aderente al mondo e alla cultura dei suoi protagonisti: sofferenti e sconfitti, è vero, fin dalla nascita, lontanissimi tuttavia da ogni tentazione di «buon cuore» e di «sentimenti patrii». (…) Non ha una visione «corretta» della lotta di classe, ma, a parte la validità di questa critica, non predica certo una qualche ideologia della «rassegnazione». (…) Ritengo, per quanto questa espressione possa apparire scandalosa, che l’arte e la letteratura debbano essere «liberi», che nella «libertà» non dai condizionamenti ideologici, ma dalla precostituzione di schemi «giusti» di interpretazione del mondo realizzino meglio il loro scopo. Che è quello di offrire una testimonianza individuale, dentro la dimensione dei tempi in cui viviamo: la bellezza di questa testimonianza è data dalla sua verità umana, e dalla espressione che questa si sceglie. Così, il libro di Elsa Morante ci arricchisce di più, anche forse da un punto di vista marxista, di qualche clamoroso esperimento letterario, o cinematografico, che pensa di essere «più marxista» e «più rivoluzionario» assumendo come protagonista un qualche fittizio operaio-massa.
Paris
La Morante, un’espressione della piccola borghesia: «(…) L’attacco che la Morante fa alla Storia e alla borghesia è tutto dunque dentro il punto di vista della piccola borghesia e questo un giornale come il «manifesto» non può ignorarlo. Che poi il romanzo, nonostante l’intelaiatura ideologica piuttosto ambigua, si lasci leggere in moltissime delle sue pagine, per quello sforzo di chiarezza pedagogica e pamphlettistica che pure contiene, per quello scontro linguistico tra sublime e neoitaliano (che è poi il motivo per cui si leggono i romanzi di Verga) è un altro paio di maniche».
Pintor
Una lettera da non pubblicare: «Cari compagni, è noto che noi pubblichiamo qualsiasi lettera, quale che sia la posizione che esprime, purché sia seria e argomentata e non sia fine a se stessa. Non avrei però pubblicato in nessun caso la lettera di Balestrini e altri sul libro della Morante, perché associava in modo ignobile il nome Ginzburg a quello della Pagliuca (Diletta Pagliuca, ex suora condannata per sevizie a pazienti psichiatrici negli anni sessanta, ndr). Questa è una mascalzonata o un segno di fascismo intellettuale (ma l’aggettivo è superfluo), il che poi è la stessa cosa. E non è un particolare, ma uno stile o un veleno che inquina tutto il resto. Mi scuso di un simile incidente, che non vorrei ci costringesse in avvenire, per evitare che altri se ne ripetano, a forme di controllo o di censura che abbiamo sempre respinto, fidando nella onestà di chi scrive e nel buon senso nostro e dei lettori.
Rossanda
Una storia d’altri tempi: «Dunque, sono anch’io fra i «mascalzoni come Balestrini, Rella e accoliti», i quali pensano che per leggere la Morante non sia obbligatorio togliersi prima le idee, come i musulmani le scarpe per entrare nella moschea. (…) Confesso che questo rissoso esplodere nel seno del sessantottismo di un bisogno di liricità e immediatezza, che ogni soffio di ragione stecchirebbe come la bora, mi ha lasciato secca. (…) In tema di linguaggio e leggibilità mi par difficile ignorare, dopo oltre cinquant’anni di non tutti deliri dell’avanguardia, o più di recente non fosse che Sartre e Fortini, che le trappole del «raccontare» sono vetuste e non tutte innocenti. (…) La Storia non solo non mi pare un libro felice, ma quello che più tradisce il limite della Morante. Che è appunto indicato da Balestrini: il non riuscire a concepire che un mondo di umiliati e offesi, che la povertà, o complesse condizioni di emarginazione o devianza, o tracolli generazionali o stavolta, la guerra e la condizione dell’ebraismo, condannano ad essere ineluttabilmente vittime. (…) Mi si lasci dire «Grazie no». Io non sono di quelli (e qualche compagno me lo rimprovera) che sente l’incoercibile bisogno di una visione marxista della formazione delle galassie, del funzionamento del pancreas, di tutta la mia vita e di tutta la mia morte. Non penso neppure che il marxismo sia una «concezione del mondo», nel senso sistematico e metastorico che a questo generalmente si dà. Ma che Marx insegni qualcosa sui meccanismi della società, mi dia una chiave della storia meno «schematica» e «formulistica» che non «i poveri sempre poveri saranno, e i potenti sempre potenti», di questo sono sommessamente certa. Né sento il bisogno di misurar tutto e tutti sul termometro della rivoluzione; ma che l’ideologia del «niente cambia e non ci resta che il pianto» non sia propriamente moderna e progressiva, anche di questo sono sommessamente certa(…).
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento