Elezioni in Myanmar senza i rohingya e il voto del Rakhine
Asia Con la pressione dei militari e le ambiguità di Aung San Suu Kyi mancheranno le schede di un milione di persone in zona di guerra
Asia Con la pressione dei militari e le ambiguità di Aung San Suu Kyi mancheranno le schede di un milione di persone in zona di guerra
Nei 330 collegi elettorali in cui è diviso il Myanmar oggi i birmani si recano alle urne per decidere a chi affidare il secondo mandato dell’era democratica apertasi nel 2015 quando la Lega nazionale per la democrazia (Nld) di Aung San Suu Kyi guadagnò una netta maggioranza che le permise di formare il primo governo civile.
Ma non si voterà ovunque e non solo perché alcune aree sono in quarantena, o certe categorie a rischio come gli anziani, l’hanno fattoo in anticipo.
UN TERZO DEGLI ABITANTI dello Stato nordoccidentale del Rakhine, ossia un milione di persone, non potranno deporre la scheda nell’urna semplicemente perché quella zona, come altre aree del Paese, è in guerra. Una guerra strisciante e poco «coperta» ma che racconta di bombardamenti e incendi di villaggi con una mattanza di popolazione civile imputabile all’esercito nazionale (Tatmadaw) quanto all’Arakan Army (AA), l’ultima milizia autonomista apparsa sulla scena e che combatte a cavallo degli Stati Chin e Rakhine.
Ma oltre a loro, ci sono anche diverse centinaia di migliaia di rohingya che non potranno votare: e non solo perché la (ormai ex) importante comunità musulmana del Rakhine non aveva in patria diritto di cittadinanza ma perché un milione di loro vive ormai stabilmente in Bangladesh (la maggioranza in campi profughi).
Non è stato però una tema della campagna elettorale, dove la parola «rohingya» è rimasta un tabù del dizionario politico e linguistico. I musulmani del resto, comunque circa il 5% della popolazione, non sono mai i benvenuti: nemmeno nella Lega che nel 2015 non ne candidò nessuno e questa volta ne ha invece scelti due a far da foglia di fico a un partito che si vuole inclusivo, progressista e democratico. Come ignorare del resto che un discreto numero di monaci buddisti si è lamentato per la scelta di questi due «kalar» come vengono chiamati con disprezzo i fedeli del profeta nel vocabolario identitario locale?
LA CAMPAGNA ELETTORALE è stata dominata in realtà, specie con l’avvicinarsi del voto, da reciproche denunce: i militari accusano la Commissione elettorale di non essere in grado di garantire libere e corrette elezioni mentre la Lega butta tutte le responsabilità di quanto va male nel Paese su Tatmadaw e dunque sull’organizzazione che lo rappresenta, quel Partito dell’Unione per la solidarietà e lo sviluppo (Usdp) guidato da Than Htay, guarda caso un generale. Difficile in effetti dar torto alla Lega: Tatmadaw controlla aziende, società, conglomerati che fanno dell’economia del Paese un sistema di vasi comunicanti che portano acqua al mulino delle divise. Decidono loro cosa si fa o non si fa e con chi si negozia oppure no. L’ultimo caso?
LA LEGA VORREBBE trattare con l’AA ma Tatmadaw dice no. Non solo: per Costituzione i militari hanno diritto a tre dicasteri chiave (Interno, Difesa, Frontiere) ma anche al 25% dei seggi in parlamento il che equivale a una sorta di diritto di veto. La Lega vorrebbe cambiare la Costituzione ma finora non c’è riuscita e forse vorrebbe anche essere più democratica di quanto non sia: U Ko Ko Gyi, un attivista che ha passato 17 anni in galera sotto la dittatura, ha detto in un’intervista al MyanmarTimes che ci sono state più violazioni da parte dell’esecutivo della Lega (contro giornalisti, attivisti etc) che non durante la dittatura di Thein Sein.
Forse una forzatura (in quel periodo anche solo esprimere una critica equivaleva al carcere) ma che chiarisce i tanti lati oscuri del governo della Lady, la de facto premier che starebbe preparando il passaggio del testimone. Se la Lega è certa di una vittoria, forse potrebbe non essere più a valanga come nel 2015 anche perché il Covid sta mordendo (oltre 60mila casi e oltre 1300 morti) come la crisi economica inasprita dalla pandemia. E dal controllo occhiuto degli uomini in divisa.
Quanto al partito dei militari, difficile che possano sperare in un passo indietro degli elettori ma una riconferma sarebbe già un dato. Ma se la Costituzione resta com’è (cambiarla prevede oltre il 75% dei voti parlamentari cosa impossibile avendo i militari il 25%) non ci sarà bisogno di allertare la truppa. Basta agitarne indirettamente lo spauracchio.
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