Ricostruendo uno dei primi, sfortunati tentativi di pubblicare le proprie poesie alla fine degli anni Sessanta, Elena Švarc ricordava come la redazione dell’almanacco «Den’ poezii» sarebbe stata anche disposta ad accettarne tre, a patto però che l’autrice, allora diciottenne, sostituisse la parola duša (“anima”) con un altro bisillabo dall’aura «meno spirituale». Benché un amico poeta più anziano, Aleksandr Kušner, la scongiurasse di accondiscendere alla richiesta per non pregiudicarsi la possibilità di una rosea carriera, la liceale ribelle oppose un fiero rifiuto. Al di là della sua effettiva veridicità, l’aneddoto è emblematico della tendenza della poetessa di Leningrado, morta nel 2010 a sessantadue anni, a rivendicare la «purezza» della propria posizione di outsider nel contesto di una società, quella sovietica, che ispirava alla sua generazione soltanto un invincibile ribrezzo.

Date tali premesse, non sorprende se i versi di Švarc in Urss abbiano circolato esclusivamente nei canali sotterranei del samizdat, in forma di effimere trascrizioni dattiloscritte o addirittura affidate alla voce dell’autrice, nel corso delle innumerevoli letture organizzate all’epoca negli appartamenti privati. Se questa strategia «volatile» di diffusione assecondava, per un verso,  l’innata teatralità e la vena istrionica di Švarc, d’altra parte pareva venir incontro anche a una sua precisa esigenza espressiva, già formulata nel 1966, quando dichiarava di voler smaterializzare le parole, conducendole «alla leggera carne degli angeli, così che esse vadano a popolare il cielo, qualora sia vuoto».

Approdata alla veste tipografica soltanto nella seconda metà degli anni Ottanta, l’opera di Švarc giunge ora anche al lettore italiano grazie al volume Mattino della seconda neve (a cura di Alessandro Niero, Bompiani, pp. 496, € 22,00). Privilegiando la produzione lirica estemporanea rispetto alla dimensione meditativa dei poemi di ampio respiro, questa silloge riesce comunque a trasmettere la propensione metafisica di una scrittura ostinatamente determinata ad accostare alto e basso, luce e ombra, magnificenza e orrore, esplorando tutte le potenzialità insite nell’ossimoro.

A fungere da sprone in questo pervicace «aggiogare tra di loro cose spaiate» è un insopprimibile attaccamento alle metamorfosi. Come in Ovidio, qui «tutto si trasforma in tutto. Sirio – in un ubriaco, il Lupo – in un Leone, l’uomo in un mazzo di fiori. L’uomo – in Dio». Sfondo per questi esperimenti alchemici è una Leningrado stralunata, prodotto estremo di quella rapida degradazione che la città «creatura di Pietro» aveva subito nel corso di poco meno d’un secolo, da Puškin a Blok. Ma a riemergere non sono tanto i sobborghi settentrionali delle isole (già esplorati febbrilmente da Raskol’nikov in Delitto e castigo), quanto piuttosto i quartieri operai situati lungo l’Obvodnyj kanal e intorno alla stazione Baltijskij, dove l’ex capitale, «arruffata» e irriconoscibile, pare fuggire se stessa, come colpita da pestilenza. Al contempo, la metamorfosi – a Leningrado come altrove – è l’unico espediente per sfuggire alla morte; in una lirica del 1996 la poetessa prega Dio di non stancarsi mai di mutarla: «non cessare di crearmi, / fammi girare sulla ruota del vasaio, / sennò la morte mi raggrumerà».

Irriducibile nemica della retorica sovietica legata all’idea di «radioso avvenire», Švarc coltiva anzi una sua personalissima tendenza al memento mori, non scevra da autoironia. Così in Elegia per una lastra radiografica del mio cranio, si rammarica che, al momento del giudizio universale, il suo teschio non tornerà a riempirsi «della sua vecchia, morbida ricotta». Non meno barocca è la resurrezione evocata nella lirica Fiera-fiore, dove la poetessa si immagina di poter tornare dopo la morte alla propria autentica natura vegetale di «elena arborea»: «Dagli occhi mi rampollano garofani scuri, / divento cespuglio di rose e miosotidi insieme, / avvolta in una nube ronzante e rischiosa/ sarò abbeveratoio sospirato per bombi e vespe».

Esplicito è qui il riferimento a Osip Mandel’štam, che in una composizione giovanile del 1909 si definiva contemporaneamente «fiore» e «giardiniere». Pur citando tale immagine in Imitazione di Boileau (dove afferma che il poeta è «sempre giardino e giardiniere di se stesso»), Švarc tuttavia, a differenza del suo predecessore, sembra essere molto meno ottimista circa la possibilità di essere artefice del proprio destino. Consapevole dalla tragica parabola esistenziale dei poeti russi che l’hanno preceduta, è anzi ben felice di essere nata «col palmo piatto di un manichino», e di porsi dunque al riparo da inopportune predizioni riguardanti la propria sorte.

Col trascorrere degli anni infatti la speranza di sottrarsi al fato attraverso mutazioni incessanti si fa sempre più flebile; in una poesia del 1996, dopo aver constatato l’impossibilità di chiamare «io» un granello di polvere, l’autrice conclude mestamente: «…neanche vento diverrò / e il vento me non diverrà – / io sono sola signora sotto questa /scura e corrotta scorza». Unica consolazione per il poeta è quella di sopravvivere attraverso i propri versi, che sfuggono tuttavia a ogni controllo, in quanto esseri eternamente vivi, «indifferenti verso il loro creatore» e dotati di una certa cannibalesca voracità: «senza di lui stanno perfino meglio, dopo la sua morte si irrorano di sangue, sono ancora più vivi».