Per ora è il candidato del Pd e del Terzo Polo. Ma ha ricevuto il mandato di ricucire l’alleanza con il M5S, con cui governa in regione già da un paio d’anni.

Alessio D’Amato è stato il dominus della sanità della regione Lazio per quasi un decennio. Nella prima giunta zingarettiana (2013) ufficialmente non poteva figurare, perché la sanità era sotto commissariamento. L’ex-segretario Pd per lui inventò allora la figura di «responsabile della cabina di regia regionale della sanità».

L’assessore D’Amato ha fatto il suo ingresso ufficiale in giunta solo nel 2018, in tempo per intercettare la patata bollente della pandemia. Dapprima senza troppi danni, grazie al lockdown della primavera 2020 che ha fermato il virus nella pianura padana.

L’ondata autunnale del 2020 invece ha colpito duro ma nel complesso la Regione ha tenuto: con 208 morti per centomila abitanti (meno della metà della Lombardia) dall’inizio della pandemia, il Lazio è la quinta regione per minor numero di decessi da Covid-19.

È soprattutto durante la campagna vaccinale, però, che D’Amato si è costruito un’immagine di efficienza: il sistema di prenotazioni online ha funzionato come un orologio sin dal primo giorno, mentre nella rivale Lombardia il cervellone sbagliava persino il cap degli indirizzi e spediva i malcapitati a vaccinarsi fuori provincia. L’organizzazione svizzera degli hub vaccinali ha rappresentato una bella sorpresa per i cittadini. E un serbatoio di consensi per l’assessore.

D’Amato ha attraversato la pandemia con il piglio del comandante in capo. Ha obbligato i direttori delle dieci Asl della regione a un briefing quotidiano via zoom in cui più di un dg è finito dietro la lavagna. Lui, nel frattempo, spostava il suo quartier generale all’istituto Spallanzani, da cui ha diretto le operazioni stringendo un patto di ferro con il direttore sanitario Francesco Vaia. Proprio quel «franceschiello» definito una «cariatide della sanità pubblica» in un libro del 2008 dello stesso D’Amato sugli scandali sanitari che costrinsero Vaia alla latitanza.

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Fare la pace è convenuto a entrambi: lo Spallanzani ha dato il suo prestigioso avallo alle decisioni di D’Amato in materia di sanità e Vaia ha avuto la promozione a direttore generale dopo aver messo fuori gioco la precedente dg Marta Branca, il direttore scientifico Giuseppe Ippolito e un’altra dozzina di stimati medici e ricercatori fuggiti altrove per non assecondare le tante scelte discutibili passate per lo Spallanzani.

Al tandem D’Amato-Vaia si deve la bizzarra gestione del vaccino italiano Reithera, la cui sperimentazione è stata prima finanziata dalla Regione e poi affossata dallo Spallanzani senza una parola di spiegazioni. Per non parlare dell’altro vaccino sponsorizzato da D’Amato, lo Sputnik che l’assessore – d’accordo con Meloni e Salvini – avrebbe voluto produrre nella Regione in nome di un memorandum d’intesa con il fondo sovrano russo e lo stesso Spallanzani. La nomina di Vaia a direttore generale però ha messo d’accordo maggioranza e opposizione.

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All’uscita dell’emergenza, D’Amato non ha voluto perdere l’insolita pole position del Lazio. Appena pubblicato il Pnrr, la regione già a febbraio aveva comunicato i luoghi in cui saranno realizzate le case di comunità, i presidi per le cure primarie previste dal Piano.

D’Amato ha sfidato anche il nuovo governo sulla trasparenza: mentre il ministro Schillaci abrogava il bollettino dei dati della pandemia, l’assessore continua a pubblicarli quotidianamente.

Con la fine della pandemia acuta, sono riaffiorati vecchi incidenti e mali storici. A inizio settembre, D’Amato è stato condannato a restituire 275 mila euro raccolti nel 2005-2008 dalla Fondazione Italia Amazzonia che, secondo il tribunale, sarebbero stati girati all’associazione Rossoverde che lo sosteneva. Scontato il ricorso in appello, ma è un brutto neo per la campagna elettorale.

La frenata del virus ha fatto riapparire anche i malati parcheggiati a decine sulle barelle del pronto soccorso degli ospedali in attesa di ricovero. Ma la tara genetica della sanità laziale riguarda il rapporto pubblico-privato, settore in cui la Lombardia appare un modello più che una rivale.

Il Lazio ha il primato nazionale della percentuale di posti letto (51%) e di ricoveri (54%) nelle strutture private accreditate e il secondo posto (dopo Milano) per la spesa sanitaria privata pro-capite dei cittadini.

Se il M5S ci sta, la corsa di D’Amato dovrà ripartire da qui.