Dopo lunga e forse approfondita riflessione la Commissione di Bruxelles – per l’economia affidata a un ex primo ministro italiano, di un partito “di sinistra” – ha partorito la proposta di riforma dei criteri di bilancio pubblico per l’Europa, divenuta urgente dopo la parentesi del covid.
Ma non v’è riforma. La proposta ribadisce le vecchie regole. Ha reso solo meno stringente, prima facie, il criterio del contenimento del debito.

Se Keynes fosse qui reagirebbe con parole al vetriolo. Per il genio dell’economia del Novecento i criteri dovrebbero essere due: pareggio fra le uscite di parte corrente e le entrate di parte corrente del bilancio, ampia spesa per validi investimenti.

Keynes aborriva il debito pubblico, ben più dei burocrati di Bruxelles: foriero di instabilità finanziaria, recessione, disoccupazione. Il disavanzo di parte corrente distrugge risparmio, senza il quale non può esservi crescita dello stock di capitale, quindi del prodotto. Se lo Stato “consuma” più del proprio “reddito” il debito, a parità di condizioni, aumenta. Invece, l’investimento pubblico in utili infrastrutture ha un duplice effetto positivo per l’intera economia. Assicura la piena occupazione dal lato della domanda (molto debole in Europa, oggi come ieri).

Favorisce la crescita di trend dal lato della produttività (molto debole in Europa, oggi come ieri). Nell’ultimo ventennio gli investimenti pubblici europei sono stati tagliati. Hanno fatto spazio alle uscite correnti. Non di rado sono stati addirittura inferiori a quanto richiesto dalla manutenzione delle infrastrutture esistenti, all’ammortamento del capitale pubblico, erodendone la consistenza.

La spesa per investimenti non dilata il debito pubblico. Generando reddito oltre il breve periodo, e con esso il gettito tributario, la spesa iniziale si autofinanzia. Anzi, rispetto a un Pil sospinto in tendenziale aumento, il debito si riduce. Quindi Keynes auspicava che al rigoroso equilibrio nella parte corrente del bilancio si unissero l’assenza di vincoli sugli investimenti pubblici e una loro massiccia effettuazione. Le verifiche empiriche, econometriche, hanno confermato la bontà della sua tesi. In particolare, il moltiplicatore della domanda è alto, sotto certe condizioni anche superiore al doppio della spesa originaria, comunque sufficiente ad assicurarne l’autofinanziamento.

Il principale vizio della proposta della Commissione – che passa ora al vaglio dei responsabili politici dei paesi membri – è al fondo di continuare a sottoporre agli antichi criteri contabili di Maastricht la spesa per investimenti, equiparandola alla spesa corrente. Una precisa distinzione fra i due tipi di spesa è essenziale, per evitare che si spaccino uscite correnti per uscite in conto capitale. Ma la distinzione è possibile. Come si può non capire quanto sia diversa la spesa per la carta igienica dalla spesa per un ponte? La prima è nell’immediato utilissima, preziosa, ma non produce reddito in futuro. Il ponte evita di guadare il fiume non solo nell’immediato, ma produce tale servizio, quindi reddito, anche in futuro. Keynes a parte, qualsiasi persona di buonsenso troverebbe assurda la proposta della Commissione in questi fondamentali aspetti.

Il governo italiano deve contrastare siffatte idee, analiticamente sbagliate, che tuttora circolano a Bruxelles. Deve opporsi, sino a porre il veto alla proposta che sta andando in discussione. L’Italia, Pnrr o meno, patisce carenze infrastrutturali divenute insopportabili, per i cittadini, per l’intera economia: nella messa in sicurezza di un territorio fra i più fragili, nella tutela dell’ambiente, nella sanità, nell’istruzione, nella ricerca, nelle utilities. Non può, un Paese in tali condizioni, accedere a una filosofia economica aberrante, priva di base scientifica, solo perché la Germania può permettersi di sacrificare gli investimenti all’obiettivo politico di accumulare crediti verso l’estero attraverso una bassa domanda interna e l’avanzo nella bilancia commerciale che ne consegue.