In un magnifico appunto del 1885, scritto durante la composizione del quarto libro della Gaia Scienza, Nietzsche osservava che la possibilità di rinnovare radicalmente l’identità europea doveva passare necessariamente per la riconquista di una nuova e «meridionale» salute, per un lavacro intellettuale capace di rendere gli spiriti illuministi del continente «gradualmente più vasti, più sovranazionali, più europei, più sovraeuropei, più orientali, infine più greci – giacché la grecità fu la prima grande unificazione e sintesi di tutto il mondo orientale e appunto perciò l’inizio dell’anima europea».

Almeno a partire da Hölderlin e, poi, da quella miniera di idee che fu la cultura storico-filologica  basileese a partire dagli anni sessanta del XIX secolo, l’Oriente ha acquisito per l’ottica occidentale il significato di un elemento originario nascosto sotto lo sviluppo del pensiero e della cultura europei: l’immagine di un corrispondente discorde per contrastare il quale fu necessario ricorrere all’antidoto di una visione del mondo governata dalla potenza della misura, dell’ordine, del numero.

L’Oriente ha pertanto rappresentato, per innumerevoli filosofi, autori e pensatori del Novecento il rimosso della coscienza europea, il sostrato sempre pronto a riemergere come malattia spirituale dell’occidente apollineo in improvvise manifestazioni di violenza, brutalità e barbarie; una sorta di minaccia interiore, sapientemente contenuta ma mai veramente compresa, posta al fondo di tutto lo sviluppo della civiltà europea.

Oggi, in un’epoca rimessa in discussione dal confronto con le culture del mondo e con gli effetti devastanti del dominio europeo sui cinque continenti, si possono facilmente riconoscere i limiti «ideologici» di una simile visione, ma non è possibile negare l’energia simbolica di quel dualismo, la sua straordinaria capacità di rappresentare la paura ancestrale dell’altro, dell’ignoto, dell’incomprensibile.

La cultura tedesca, del resto, ha sempre nutrito come nessun’altra il pensiero della polarità e ha cercato innumerevoli volte di rappresentarsi il mondo in un’immagine duale.

L’Oriente e l’Occidente, che Ernst Jünger mette al centro della sua riflessione del 1953 ben tradotta, insieme alla famosa «risposta» di Carl Schmitt, da Giovanni Gurisatti e Alessandro Stavru – Ernst Jünger – Carl Schmitt, Il nodo di Gordio (Adelphi, pp. 238  € 14,00) non è che una di queste molteplici polarità, la cui efficacia intellettuale nulla ha a che fare con la sua rispondenza a un qualsiasi dato di realtà. L’oggetto che si pretende di illuminare è il nesso potere-violenza e le diverse declinazioni cui questo nesso dà luogo, nello spazio dominato da una visione mitica e metafisica del sovrano o, viceversa, in quello segnato dalla limitazione etica del suo potere.

Le circostanze in cui il saggio di Jünger riappare ora (era già stato pubblicato dal Mulino nel 1987 a cura di Carlo Galli) non sono dunque le più favorevoli alla sua comprensione. È fin troppo facile, al cospetto della guerra e delle stragi in Ucraina individuare in esse le «prove» storiche della visione dell’Oriente (e dell’oriente russo in particolare) che Jünger vi dispiega.

Ma come giustamente vide subito Carl Schmitt la storia è, nel saggio, terra incognita, almeno nel senso – scrive – che la polarità pensa le sue dicotomie in termini sincronici – come parti contrapposte di un insieme immutabile – e non come effetti di un qualche divenire. All’ambizione della polarità simbolica di fornire una lettura universalmente valida del potere e delle sue opposte forme, la storia offre soltanto un diversificato materiale dimostrativo, ma nessun fondamento; Oriente e Occidente sono categorie dello spirito, non del tempo.

La ragione di questo stato di cose, che spinge Jünger a fare ricorso come altre volte a un impianto argomentativo di tipo spengleriano, sta nel cuore del saggio, che si sottrae progressivamente al tentativo di dispiegare il significato generale dell’opposizione da cui muove per approdare al suo argomento politico e critico più forte, che è poi la denuncia del nazionalsocialismo e della concezione hitleriana del potere come affioramento del sostrato orientale della civiltà europea in una forma tragicamente e ciecamente distruttiva. La prospettiva apparentemente mitico-archetipica non deve trarre in inganno.

Per quanto la grande cornice costruita da Jünger per dare fondamento alla sua riflessione sulla storia recente abbia, certo, una notevole forza suggestiva, tuttavia non è nuova e nemmeno particolarmente solida: troppo disparati e soggettivi sono gli esempi che dovrebbero servire a descrivere la forma arbitraria e brutale del potere assoluto del monarca orientale di contro ai limiti che il senso della libertà greco e illuminista impone al principe occidentale.

Al contrario, le pagine dedicate da Jünger all’analisi del potere hitleriano sono le più lucide e chiare che abbia mai scritto e rappresentano, per più versi, un documento unico. Mai prima, né dopo, Jünger ha dichiarato così esplicitamente la sua ripugnanza per Hitler e la sua vicinanza alle idee e alle azioni dei cospiratori del 20 luglio. Il nucleo del confronto Oriente-Occidente sta nella fenomenologia del potere dispotico e nella sua critica, tema a cui il dodicennio nazionalsocialista e la guerra avevano restituito un’urgenza dimenticata.

Quando Schmitt, nella sua risposta, loda la brillantezza di Jünger, ma gli attribuisce un atteggiamento astorico contro il quale gioca la sua ricorrente visione della storia universale come prodotto della grande opposizione fra civiltà di terra e mare, manca di vedere proprio ciò che non poteva e, forse, non voleva vedere, vale a dire il nucleo affatto storico della sua riflessione.

Nel carteggio fra i due si trova una lettera del dopoguerra in cui Jünger ricorda all’amico giurista di averlo messo in guardia già nel 1931 dalla pericolosità di Hitler e dal rischio di assecondare la sua ascesa, provocando la reazione irritata di Schmitt.

Dietro la vastità di orizzonti che conferisce loro una patina invecchiata e un modus argomentativo risalente ad almeno tre decenni prima, il dibattito di cui testimoniano i due scritti riuniti nel volume adelphiano nascondono questo nucleo di dissidio e, in fondo, rappresentano due risposte al proprio passato. Se quel passato fosse stato solo quello dei due autori e non avesse incrociato una delle più grandi tragedie del XX secolo e di tutta la storia moderna, si avrebbe ragione di considerare Il nodo di Gordio come un libro in ritardo sul suo tempo, il discendente di una visione classico-romantica della polarità applicata a una vasta visione geopolitica.

Ma il suo fondamento critico e storico, la sottintesa drammaticità delle esperienze da cui trae la sua origine, cambiano la prospettiva della lettura e la riflessione – piena di splendide pagine – sull’antagonismo delle due concezioni contrapposte del potere, sull’alternativa irriducibile fra dispotismo e sovranità etica, fra culto della persona del principe orientale e sovranità limitata dalla libertà del principe occidentale si capovolge in una drammatica resa dei conti con il passato recente della Germania.