A differenza della Prima guerra mondiale, che – per metterla nei termini usati da Thomas Mann nella Montagna incantata – giunse come un colpo di fulmine, per di più a ciel sereno, la seconda non fu avara di avvisaglie. Le aveva percepite George Orwell in uno dei suoi romanzi meno letti, Una boccata d’aria, uscito pochi mesi prima che le divisioni tedesche irrompessero in Polonia; sembra alludervi Emilio Lussu nella chiusa del suo Un anno sull’altipiano; è il non detto nello straordinario saggio «Tesi di filosofia della storia» di Walter Benjamin. Che un nuovo conflitto mondiale fosse all’orizzonte l’avevano capito in molti, smascherando la retorica fintamente pacifista dei vari dittatori dell’epoca (Hitler in testa), articolata per nascondere inesorabili derive belliciste. E spesso, in queste premonizioni si paventa l’apocalisse, causata da nuove e ancor più devastanti armi di distruzione di massa – come non pensare, del resto, all’esplosivo immaginato da Svevo nella celebre chiusa della Coscienza di Zeno? Il periodo tra le due guerre era inquieto, insonne; diffusa era la sensazione di star vivendo nella pausa tra le due parti di un’unica apocalisse.

Se Svevo inconsapevolmente prediceva l’atomica, intorno a lui i timori più comuni erano relativi all’uso dei gas asfissianti. La memoria delle stragi della Grande guerra era ancora ben viva, e l’iprite faceva più paura delle ricerche sull’atomo, delle quali si sapeva ancora poco. Non a caso nell’apocalittico romanzo fantascientifico Quinzinzinzili, di Régis Messac, pubblicato nel 1935 e subito dimenticato (traduzione di Michele Trionfera, Tlon, pp. 178, € 16,00), la fine del mondo viene causata proprio da un nuovo gas, usato massicciamente nella guerra mondiale allora ancora a venire. Un gas che lascia le sue vittime con un macabro ghigno sul volto, ma che risparmia accidentalmente il narratore, Gérard Dumaurier, al momento dell’apocalisse chimica in visita in una grotta con una comitiva di ragazzini.

Messac delinea rapidamente, nelle prime cinquanta pagine di questo breve romanzo, il montare della tensione internazionale che sfocia nel conflitto, e la meccanica della catastrofe, con il gas lanciato da sottomarini; ciò che gli interessa davvero è concentrarsi sui superstiti, e sull’embrione di comunità che stanno goffamente costruendo. Dumaurier, Il narratore adulto, è a tutti gli effetti poco più di un paio d’occhi e di orecchie, senza volontà, senza più spirito vitale, prosciugato dall’immensa entità della catastrofe universale (oltre alla strage ecumenica, una serie di maremoti che spazzano via le città); si limita a osservare come i bambini si attrezzano per la sopravvivenza. Li vede e li ascolta regredire a uno stato tribale, organizzare una rozza gerarchia, creare rituali insensati derivanti dall’incapacità di concepire chiaramente cause ed effetti. Li sente storpiare il linguaggio, tanto che il secondo verso del Padre nostro (all’epoca recitato in latino dai cattolici romani), qui es in coelis, diventa la parola magica quinzinzinzili che dà il titolo al romanzo. E’ un vocabolo in cui si esprime la rassegnata accettazione di cose che non si possono capire – tutti quei fenomeni chiari agli occhi dell’adulto Dumaurier, ma inspiegabili per i bambini.

Inevitabile che leggendo Messac venga in mente un romanzo ben più famoso, Il signore delle mosche di William Golding, pubblicato diciannove anni dopo Quinzinzinzili. Anche lì abbiamo un gruppo di adolescenti che ricostruiscono una sorta di civiltà regredendo a uno stadio tribale, con tanto di sacrifici umani; non c’è l’adulto tra i ragazzi, ma c’è la stessa logica di regressione temporale, il ritorno alle origini pagane, magiche, ferine. E in entrambi i romanzi la nuova umanità in embrione sembra infestata anch’essa dal male, come quella vecchia suicidatasi nella guerra mondiale (la seconda per Messac, la terza per Golding).

In cosa consista il male è chiaro in entrambi i casi: la lotta per il potere, la volontà di dominio, la pulsione omicida. Più strutturata e realisticamente ritratta in Golding, più improvvisata e grottescamente schizzata in Messac. E nel caso di Quinzinzinzili, l’esito è diverso da quello del Signore delle mosche; nessun fine apparentemente lieto, alla fine si giunge a un matriarcato tutt’altro che utopico e non violento. Messac non è un ottimista; non crede nelle magnifiche sorti e progressive. Sente incombere una nuova carneficina mondiale che si materializzò puntualmente nel settembre 1939, e travolse anche lui, massacrato in qualche lager dell’apparato concentrazionario nazista.