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Due buddisti uguali e contrari

Due buddisti uguali e contrari

Due storie buddhiste uguali e contrarie. La prima è nostra contemporanea. Inizia a Mandalay, la capitale precoloniale della Birmania/Myanmar, e racconta di un monaco indaffarato ad agitare gli animi. A […]

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 17 giugno 2015

Due storie buddhiste uguali e contrarie. La prima è nostra contemporanea. Inizia a Mandalay, la capitale precoloniale della Birmania/Myanmar, e racconta di un monaco indaffarato ad agitare gli animi. A predicare che se sei birmano devi essere buddhista e nient’altro. Soprattutto non sei musulmano e se lo sei, devi andartene dal paese.

Una xenofobia eccitata e incendiaria che ha già fatto troppe vittime, soprattutto tra i Rohingya, popolazione che abita lo stato Rakhine (già Arakan), che infatti sta fuggendo e perdendo vita e speranza nell’Oceano Indiano. U Wirathu, il monaco in questione, predica la purezza birmana del buddhismo e ha animato un movimento islamofobo, denominato, secondo una numerologia buddhistica, 969.

Adesso è l’ispiratore dell’Organizzazione per la Protezione della Razza e della Religione, localmente nota con l’acronimo MaBaTha: c’è un complotto mondiale dei musulmani, sono i padroni del commercio e di molte imprese, le donne buddhiste e-birmane non devono sposarli. Sostituire musulmano con ebreo e il nazibuddhismo si materializza all’istante.

Il nazibuddhismo

Le prediche-comizio del monaco sono molto seguite, dal vivo e online, e non è difficile vedere il distintivo del 969 su taxi e autobus. Si prevede un futuro politico di un certo rilievo per lui e il suo movimento.
Reagiscono alcune organizzazioni di donne che vedono in queste posizioni ipernazionalistiche anche un incentivo a riesumare pratiche patriarcali in declino. Reticente è invece Aung San Suu Kyi e il suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia-Lnd, per timore di contrastare il diffuso sentimento che equipara birmano con buddhista e che complica da sempre il rapporto con le minoranze sia etniche sia religiose, cristiani, induisti ecc.

L’attivismo di U Wirathu non si ferma ai confini nazionali. A settembre è stato ospite di primo piano in Sri Lanka al congresso del Bodu Bala Sena, Forza di Potere Buddhista, una formazione altrettanto radicale e islamofoba. Una incipiente internazionale del buddhismo razzista? Quando a gennaio si è presentata a Yangon la relatrice delle Nazioni unite per i diritti umani, la sudcoreana Yanghee Lee, proprio per verificare tra l’altro la pulizia etnica contro i Rohingya, U Wirathu l’ha pubblicamente qualificata come «strega» e «puttana». Sappiamo dove porta questa retorica di disumanizzazione dell’avversario.

Canta un’altra canzone la storia buddhista che si conclude a Maymyo, a settanta chilometri di Mandalay, dove la primavera sconfigge le altre stagioni. Una ininterrotta scena di fiori e di alberi, di cascate e di ombre. La luce, non si sa come, attecchisce alla pelle. Una piccola pagoda bianca, priva della pomposa imponenza che spesso emanano le architetture buddhiste, conserva i resti di un monaco tra i più significativi della storia del buddhismo mondiale. Lokanatha, il suo nome, morto di cancro a sessantanove anni nel 1966, dopo una vita vissuta tra Asia Europa e America.

L’utopia di Cioffi

Una esistenza agitata da un sogno, da una utopia perseguita senza compromessi, quella della progressiva conversione al buddhismo dell’umanità, a cominciare dai suoi leader, e, di conseguenza, il raggiungimento della fratellanza universale e della pace. Fa sorridere, ma era meno indecente di utopie con altri nomi diffuse con carri armati, droni o kalashnikov.

Il monaco buddhista Lokanatha altri non era che Salvatore Cioffi, nato nel 1897 a Cervinara in provincia di Avellino. Ha quattro anni quando la sua famiglia emigra a New York. Si laurea in chimica nel ’22, lavora alla Procter & Gamble, parla il francese, suona il violino, si iscrive alla Scuola di Medicina e Chirurgia della Columbia University, ma la dissezione degli animali contrasta con il suo profondo sentire. Diventa vegetariano.

Qualcuno gli passa un libro: «È stato il Dhammapadha che cambiò completamente la mia vita. Divenni buddhista leggendolo». Sono 423 versetti, una sorta di testamento spirituale del Buddha, una sintesi della dottrina. Lascia la famiglia, si imbarca verso est.

Nel 1925 Lokanatha viene ordinato monaco buddhista a Rangoon, attuale Yangon, nella colonia inglese detta Birmania. Una tremenda e poco spirituale dissenteria lo riporta l’anno successivo in Italia dove, a suo dire, convince le autorità militari ad accettare la sua obiezione di coscienza e a non spedirlo in caserma, ma i suoi piedi cercano nuovi sentieri da calpestare e solo con la loro spinta riprende la strada del ritorno in Birmania dove arriva nel ‘28. Comincia una rigorosa condotta di vita fatta di studio e di meditazione. Tra i suoi discepoli c’è un giovane Aung San che sta per diventare il leader della lotta armata per l’indipendenza nazionale birmana contro gli inglesi, futuro e amato «padre della patria» e padre di Aung San Suu Kyi, icona vivente, premio Nobel per la pace, attuale leader politica.

Il pellegrinaggio energetico

Ma il monaco Lokanatha vede non solo se stesso, vede soprattutto l’infelicità cronica del mondo, vorrebbe porvi rimedio, perciò concerta nei primi Anni Trenta alcune spedizioni missionarie di monaci dal Sud Est Asiatico a Bodh Gaya in India, nel luogo in cui Siddhartha Gautama raggiunse l’illuminazione e divenne il Buddha storico. Una specie di pellegrinaggio energetico in vista della futura buddhizzazione dell’umanità. No, non gli sarebbe piaciuta questa parola, consentita però dalla determinazione con cui persegue il suo disegno missionario.

Nel 1935 e nel ‘36 aveva avuto lunghi colloqui in India con Bhimrao Ramji Ambedkar di cui è bene abbondare in definizioni: padre, anch’egli, della Costituzione indiana, filosofo, economista, rivoluzionario, scrittore, ecc. Soprattutto dalit cioè paria, fuori casta, intoccabile, diciamo noi. Con l’induismo non si esce dal sistema chiuso delle caste, con il buddhismo sì, spiega Lokanatha. Vent’anni dopo Ambedkar si converte pubblicamente e con lui centinaia di migliaia di dalit indiani diventano buddhisti. Una delle più grandi conversioni di massa della storia.

Nell’ora dei lupi della seconda guerra mondiale gli inglesi internano Lokanatha in India. Perché è italiano, dunque nemico dichiarato, o perché è stato discepolo del noto monaco anticolonialista U Wisara, morto di digiuno politico in carcere? Dieci anni dopo stessa sorte per U Ottama. Intrecci dell’anima e del mondo, politica e mistica senza confini.

Dopo la guerra mondiale, il buddhismo appare a Lokanatha come «una bomba atomica d’amore». Torna negli Usa nel 1948, dopo aver predicato a Singapore, Manila, Hong Kong, Shanghai Nel ’49 è il momento del tour europeo. Prima di Londra e altre capitali, passa anche a Torino, dove stava traducendo proprio il Dhammapadha Eugenio Frola, ingegnere e matematico, professore di geometria descrittiva al Politecnico, e fondatore di un luogo di auscultazione della ragione, il Centro Studi Metodologici, con Nicola Abbagnano, Norberto Bobbio, Ludovico Geymonat.

Ritorno a Rangoon

La lunga peregrinazione si conclude nel 1951 con il ritorno in Birmania a tessere altri legami, altri incontri e congressi internazionali buddhistici mai avvenuti prima. Lo anima una specie di passione che diresti poco buddhista: preparare il terreno per una vasta campagna mondiale di conversione. L’umanità deve sapere che il grande dolore del vivere può essere messo a tacere, che il buio del mondo può essere sopraffatto dalla luce. Avvolgere il mondo con la verità aveva scritto anni prima.

Un piccolo dolore incide nella sua testa, poi, sempre più grande, lo porta alla morte, il 25 di maggio del 1966 tra i fiori profumati di Maymyo.

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