Internazionale

Drone Houthi sulla parata saudita

Yemen Esplosione in volo, sei morti e decine di feriti. Tra loro i vertici dell'esercito e dell'intelligence del governo ufficiale. Ora la fragile tregua su Hodeidah è ancora più in bilico

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 11 gennaio 2019

C’è chi eri, sulla stampa internazionale, parlava di «drone kamikaze» per descrivere il velivolo saltato in aria ieri mattina sopra la base militare di al-Anad, nel sud dello Yemen (guarda il video).

Il quintale di esplosivo che portava è finito sul podio della parata militare che l’esercito governativo yemenita e le forze della coalizione anti-Houthi avevano organizzato. Subito è scoppiato il caos tra i vertici militari, riuniti sotto la tenda accanto a una gigantografia del presidente Hadi. Sabanet, agenzia vicina agli Houthi, responsabili dell’attacco, l’ha definito «un’azione contro invasori e mercenari». Il governo ufficiale yemenita, filo-saudita, ha parlato di «crimine» compiuto da «milizie che non sono pronte alla pace».

Di certo quel drone fa tremare la fragile tregua sulla città di Hodeidah, strappata dall’Onu alle due parti alla fine dello scorso anno. Non tanto per il numero di morti (sei quelli confermati) o per quello di feriti (fonti governative parlano di 20, gli Houthi di oltre 100), quanto per le personalità colpite: tra i feriti ci sono il capo di stato maggiore dell’esercito yemenita Abdullah Nakhi, il suo vice Zandani, il capo dell’intelligence militare Saleh Tamah e il governatore della provincia di Lahj Ahmed al-Turki.

Il messaggio inviato dai ribelli Houthi è enorme: non c’è tregua che tenga senza una vera transizione politica. Quella che il movimento politico della minoranza sciita, Ansar Allah, chiede da anni e che da anni l’Arabia saudita, padre padrone dello Yemen, rispedisce al mittente. Ma il livello militare raggiunto – impossibile negare un ruolo iraniano nella diffusione di certe armi – spiega bene le difficoltà che i Saud incontrano nel paese, nel porre fine alla resistenza Houthi.

Non aiuta la confusione che ancora regna ad Hodeidah, la città portuale sul Mar Rosso oggetto dei più feroci scontri degli ultimi mesi e della conseguente tregua sponsorizzata dalle Nazioni unite: gli Houthi hanno accettato di ritirarsi dal porto, ma non si capisce bene a chi dovrebbe passare il controllo dello scalo. L’inviato Onu Martin Griffiths fa la spola tra Riyadh e Sana’a nel tentativo di tramutare quel cessate il fuoco in un processo di pace politico. Finora senza successo.

Solo 24 ore prima, mercoledì, Griffiths spiegava al Consiglio di Sicurezza che l’accordo siglato nella cittadina svedese di Rimbo stava conducendo a una significativa de-escalation del conflitto. Così non è e non solo per l’esplosione del drone. La coalizione a guida saudita e l’esercito governativo proseguono nelle operazioni militari (come accaduto in questi anni, spesso contro civili: le ultime due vittime ieri nella provincia di Hajjah) e lo stesso fanno i combattenti Houthi, con Sabanet che su base quotidiana riporta di uccisioni di soldati yemeniti o della coalizione.

Griffiths lo sa bene e al Consiglio di Sicurezza lo ha ribadito: gli scontri si sono attenuati, ma è anche vero che senza «sostanziali progressi» quell’accordo cadrà nel vuoto. Nel mirino dell’inviato ci sono i ritardi nell’accesso di aiuti umanitari e nel ritiro delle due parti da Hodeidah.

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