Un educatore impegnato nella Riduzione del Danno (RdD) nelle scorse settimane è stato trovato in possesso di party drugs mentre, nel suo tempo libero, era in stazione diretto verso una festa. Il suo arresto per spaccio solleva questioni profonde riguardanti la percezione sociale delle sostanze psicoattive e l’importanza di un approccio scientifico alla gestione dei consumi. La lettera con cui ha rivendicato l’uso personale e al tempo stesso cercato di rompere lo stigma, è il punto di partenza. È cruciale riconsiderare il concetto di «uso compatibile» e abbracciare l’approccio della RdD, riconosciuto come uno dei pilastri delle politiche comunitarie sulle droghe e inserita in Italia nei livelli essenziali di assistenza nel 2017.

Da decenni, la RdD ha dimostrato che il paradigma del “drug-free”, con l’astinenza come unico obiettivo, è irrealistico. Inoltre, ha evidenziato che un uso compatibile delle sostanze può coesistere con uno stile di vita gratificante.

È essenziale comprendere la distinzione tra uso, uso problematico e abuso, evitando di patologizzare le sostanze in quanto tali, come non si metterebbe in discussione pregiudizialmente un coltello indipendentemente dall’uso che se ne possa fare. Questo è particolarmente importante considerando il bias – tendenza – sociale che spesso distorce la percezione delle droghe illegali rispetto a quelle legali. Per tutti, ma in specifico per chi opera in professioni di aiuto, è importante non incorrervi: rende alto il rischio di sottostimare un consumo problematico se è di una sostanza legale come l’alcol, o addirittura di non riconoscere un disagio in chi non usa sostanze; al contempo fa leggere per forza come malata una situazione in cui è presente una sostanza psicoattiva illegale.

Le controversie sull’uso di sostanze da parte di Elon Musk confermano questi bias: nonostante le evidenze dimostrino che l’uso di droghe non pregiudica necessariamente il successo personale, e nel caso di Musk, l’uomo più ricco del mondo, questo è lampante, persiste una preoccupazione irrazionale che favorisce il pregiudizio anziché l’evidenza.

Per i professionisti che operano nei servizi orientati alla RdD, l’esperienza personale dell’utilizzo di sostanze può essere un valore aggiunto nella relazione educativa. Questo principio è supportato dalle pratiche di peer support, che dimostrano che l’esperienza diretta può migliorare significativamente l’efficacia dell’intervento.

Tuttavia, molti professionisti trovano difficile fare coming out riguardo al proprio utilizzo di sostanze al di fuori dei confini della propria equipe, perché è molto concreto il timore che possa comportare come minimo una perdita di credibilità tale da mettere in discussione la professionalità acquisita.

Questo paradossale stato di cose impedisce non solo un progresso culturale globale, ma anche la possibilità di offrire un supporto più efficace a coloro che ne hanno bisogno. Per cui a meno di essere Carl Hart (il professore della Columbia University che usa eroina, ndr) e di avere il suo potere contrattuale si finisce di permanere in una zona perlopiù grigia se non di negazione, con tutti i danni correlati.

È urgente superare l’approccio moralistico in favore di uno laico, pragmatico e scientifico. Un approccio che riconosca la complessità dei comportamenti legati all’uso di sostanze e che miri a ridurre i danni associati, anziché moralizzare o stigmatizzare. È tempo di abbracciare una visione più umana e inclusiva, che ponga al centro il benessere e la salute delle persone, senza pregiudizi né discriminazioni.

L’episodio potrebbe diventare un’occasione estremamente utile ed interessante per riflettere a partire dall’interno dei servizi pubblici e del privato sociale per fare tutti insieme un salto di qualità. Non perdiamola.

La vicenda su Fuoriluogo.it