Un nome evocativo quello scelto dal governo italiano per l’operazione militar-sanitaria in Libia: 300 militari (60 tra medici e infermieri, 135 per il supporto logistico e 100 parà della Folgore a protezione del contingente) voleranno a Misurata accompagnati dal fondatore della professione medica, lo scienziato Ippocrate.

Così è stata ribattezzata l’operazione partita ieri per l’apertura di un ospedale militare nella città costiera libica a metà tra Tripoli e Sirte, primo ufficiale dispiegamento di truppe italiane nel paese post-Gheddafi. Lo hanno ufficializzato ieri in parlamento il ministro degli Esteri Gentiloni e la ministra della Difesa Pinotti, tra le proteste delle opposizioni.

Se prima i feriti gravi venivano evacuati in Italia, ora l’assistenza sarà fornita sul posto. Ma, prova a precisare Gentiloni, non ci sono stivali sul terreno: «In Libia non ci sono boots on the ground, forse meds on the ground, cioè medici con la necessaria protezione militare». La richiesta di un ospedale, aggiunge Pinotti, era stata «formalizzata dal primo ministro al-Sarraj con una lettera al premier Renzi l’8 agosto». «Non è un’operazione militare travestita da umanitaria – continua – In Libia non andremo a fare altre cose».

Pochi dottori e molti parà – dicono – spediti a curare i feriti delle brigate di Misurata, il gruppo armato nato nel 2011 e oggi impegnato in quel di Sirte, città da settimane sotto attacco aereo Usa per strapparla all’Isis che però è ancora lì dov’era prima.

La decisione di appoggiare il governo di unità nazionale (Gna) del premier al-Sarraj, voluto dall’Onu, le sta salvando: negli ultimi anni si sono macchiate di crimini gravi, massacri di civili, trasferimenti forzati, case e villaggi dati alle fiamme e distrutti, crescendo a dismisura grazie alle armi confiscate all’ex esercito di Gheddafi e a quelle ricevute nei primi mesi del conflitto dall’Occidente, sotto l’egida Nato. Ora sono considerate appendice all’esercito governativo di al-Sarraj.

Milizia contro milizia: è Misurata ad essere principale antagonista alle truppe del generale Haftar, braccio armato del parlamento ribelle di Tobruk, ex riferimento occidentale. La Libia rischia di diventare una bolgia peggiore di quanto sia stata finora.

Difficile gridare allo scoppio della guerra civile, visto che è già realtà: nel paese operano innumerevoli gruppi armati, islamisti, tribali, laici, ognuna al soldo di autorità diverse e avversarie.

Ad approssimarsi è un altro conflitto, quello tra Gna e Tobruk. Il braccio di ferro si gioca nella Mezzaluna petrolifera, i porti petroliferi di Ras Lanuf, Sidra, Brega e Zueitina, principale fonte di sopravvivenza del governo di unità in un periodo di grave crisi economica: perdere quelle entrate significherebbe collassare del tutto, con una popolazione alle prese con svalutazione del dinaro, mancanza di carburante e servizi, inflazione in crescita costante.

Forte della lunga serie di alleati esterni (Egitto, Golfo e Francia), del controllo pressoché totale di cui gode in Cirenaica e dello scarno consenso popolare al Gna visto come imposizione occidentale, Haftar punta sull’impossibilità per il governo di unità di perdere quelle risorse e allo stesso tempo di aprire un nuovo fronte bellico: il generale vuole un posto di rilievo nell’esecutivo al-Sarraj.

Per farlo occupa i porti togliendoli alle milizie di Ibrahim Jadran, che li avevano presi due anni fa. Nelle mani del Gna erano andati con la “fedeltà” (in cambio di milioni di dollari e stipendi governativi, nella pratica un’estorsione) dichiarata dal signore della guerra Jadran al al-Sarraj. Non a caso le guardie petrolifere di Jadran – 20mila uomini – hanno lasciato i pozzi senza combattere.

Il bottino è di un certo peso: sebbene la produzione di greggio sia enormemente calata dal 2011, oggi dal sottosuolo libico vengono estratti 300mila barili al giorno degli 1,6 milioni potenziali, il 97% dell’export libico. L’occupazione dei porti è giunta a pochi giorni dalla partenza del primo cargo da dicembre 2014.

Per questo ieri si è sollevato il coro unanime della comunità internazionale: Usa, Italia, Spagna, Germania, Gran Bretagna e Francia hanno ribadito che il governo di Tripoli è «il solo autorizzato ad usare tali risorse» e chiesto ad Haftar l’immediato ritiro.

Sottoscrive anche Parigi, nonostante il neppure troppo occulto sostegno militare garantito al generale con cui ha organizzato operazioni congiunte. Il governo di unità chiede alle sue forze armate di riprendersi i pozzi, ma dietro le quinte potrebbe negoziare – su pressione internazionale – con Haftar per evitare lo scontro aperto.