L’indipendentismo ha perso la maggioranza che aveva ostentato per un decennio: questa è la principale novità che emerge dalle urne catalane della scorsa domenica. Con un consenso elettorale di poco superiore al 40%, i partiti che diedero vita al cosiddetto procés, che culminò nel 2017 col referendum del 1 ottobre e la dichiarazione unilaterale di indipendenza, hanno smarrito complessivamente 900.000 voti rispetto a sette anni fa. Junts per Catalunya, il partito liberale di Carles Puigdemont, ha guadagnato tre seggi, arrivando ad averne 35, ma non recupera tutti quelli persi dagli altri partiti indipendentisti, né convince tutto il suo elettorato a recarsi alle urne.

A sinistra Esquerra Republicana di Oriol Junqueras subisce una sconfitta gravissima con la perdita di ben 13 seggi e ora ne ha 20; mentre la Cup, la formazione della sinistra radicale indipendentista, ne conserva appena quattro. In totale, l’indipendentismo somma 59 seggi, una cifra ben lontana dai 68 necessari per la maggioranza assoluta parlamentare.

Le ragioni di questo cambio di fase sono diverse: per esempio, il fatto che i giovani, specie quelli tra i 18 e i 24 anni, secondo un’inchiesta del Ceo, mostrano una tendenza molto più conservatrice dei loro genitori e siano poco interessati alle relazioni tra la Catalogna e lo Stato spagnolo. O magari la durezza di questi ultimi sette anni, attraversati da pandemia, crisi economiche, siccità e guerre, ha spostato l’attenzione delle persone verso altre priorità. E poi la disillusione per una battaglia da cui si è usciti sconfitti sette anni fa, risoltasi tra carcere, esilio e commissariamento, solo mitigata dai provvedimenti di indulto e amnistia voluti dal governo di Pedro Sánchez. Perché è certo che la repressione agita dal governo popolare di Mariano Rajoy contro l’indipendentismo fu allora una delle principali leve per la crescita del movimento.

Le elezioni evidenziano anche una parziale modifica della natura dell’indipendentismo che, nel procés, si era fatta più repubblicana e meno nazionalista. Intanto perché entra per la prima volta nel parlamento catalano una formazione indipendentista di estrema destra, Aliança Catalana, seppure con solo due seggi, in controtendenza col carattere democratico sempre dimostrato dal movimento. Basti pensare alla manifestazione per l’accoglienza dei migranti che si tenne in pieno procés nei primi mesi del 2017, che portò in piazza a Barcellona mezzo milione di persone.

Eppoi perché la sconfitta di Esquerra e il ridimensionamento della Cup ne affievoliscono la componente progressista, importante quando non maggioritaria, che faceva dell’indipendentismo un luogo originale di trasversalità e pluralismo politico. Esquerra ha pagato la debolezza del suo candidato rispetto alla retorica dell’eterno ritorno di Puigdemont, l’usura per avere governato negli ultimi tre anni la Generalitat e l’incapacità di capitalizzare i risultati del negoziato col governo spagnolo. E avrà bisogno di tempo per ricostruirsi.

Rafforzata dalle elezioni esce invece la componente conservatrice rappresentata da Junts, con la tentazione che questo preluda a un ritorno ai canoni dell’antica Convergència. Come si è visto in campagna elettorale, quando la confindustria catalana e Jordi Pujol hanno manifestato il loro sostegno alla candidatura di Puigdemont. In Spagna la dialettica politica si sta riducendo a socialisti e popolari, con un rischio di regresso al bipartitismo. E oggi, alla presidenza della Generalitat, si presentano Illa per i socialisti e Puigdemont per Junts.