Da tempo l’ordine politico globale riserva al terrore un ruolo di primo piano. Almeno in superficie, però, il riferimento al terrore ha mutato drasticamente segno nel passaggio dal Ventesimo al Ventunesimo secolo. Schematicamente, si è passati dall’equilibrio del terrore, che aveva dominato lo scenario della Guerra fredda, alla guerra globale al terrorismo inaugurata dalla reazione americana all’11 settembre.

Sono vicende lontane, in apparenza. Eppure, riportare alla mente uno sfondo così remoto può aiutarci a cogliere i significati più profondi della crisi attuale in Israele e Palestina, perché gli eventi innescati dall’attacco omicida dei miliziani di Hamas presentano, per la prima volta in modo nitido, una sorprendente mescolanza tra le due facce del terrore che ci erano già note.
Annunciano forse, perciò, un genere nuovo e molto più distruttivo di equilibrio del terrore, al quale dovremo imparare a reagire con strumenti diversi dal passato, per non rischiare di esserne sopraffatti.

COME SI RICORDERÀ, la formula dell’«equilibrio del terrore» fu coniata per descrivere la paradossale stasi indotta dagli armamenti atomici, che costringevano le due superpotenze a evitare uno scontro diretto, destinato a sfociare in una catastrofe planetaria.

La minaccia nucleare imponeva insomma una specie di cooperazione fra i due fronti, rafforzando le politiche di deterrenza. Il terrore fungeva così non solo da collante dell’ordine globale, ma anche da solido criterio di legittimazione del potere. Si tendeva a supporre, infatti, che solo un fedele allineamento all’uno o all’altro campo potesse davvero proteggere dalla minaccia atomica. La minaccia teneva quindi in riga oppositori e alleati recalcitranti, perpetuando lo status quo, pur restando qualcosa di virtuale: un’angosciosa possibilità destinata a non realizzarsi, finché si rimaneva sotto l’ombrello del potere costituito.

Nel terrorismo degli ultimi decenni, il panico ha assolto invece una funzione opposta. Scopo dei terroristi era mostrare che la protezione offerta dal potere era in realtà illusoria e inefficace. Non si trattava affatto di cementare l’ordine costituito, ma di produrne la frana.

DISTRUZIONE e violenza, perciò, dovevano essere reali e non virtuali. Bisognava esibirle in modo spettacolare, per spingere all’azione il più alto numero possibile di potenziali ribelli, inclusi lupi solitari, imitatori e psicopatici.

L’aggressione di Hamas ai civili israeliani ha un’evidente affinità con questo uso recente del terrore. Lo confermano le analogie con l’attentato al Bataclan o con le tecniche mediatiche dell’Isis. L’efferatezza è stata spinta ed esibita platealmente per cancellare ogni illusione di sicurezza, irridere la promessa di protezione dello Stato e incitare i palestinesi alla rivolta. Eppure, c’è qualcosa di più inquietante in questo attacco che un’ennesima variante del terrorismo islamista.

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NE È UN SINTOMO la tendenza diffusa, anche nei paesi occidentali, a registrare l’azione di Hamas non tanto come terrorismo quanto come crimine di guerra, equiparando la milizia islamista a un surrogato dell’autorità statale, sia pure per denunciarne l’azione criminale. Un’opacità che non è solo ignoranza del diritto (come pure è stato suggerito), ma è radicata nell’ambiguità effettiva della situazione.

Per rendercene conto, basta ricordare che molti osservatori, a cominciare dal segretario delle Nazioni Unite, hanno preso spunto dagli ultimi eventi per rilanciare la formula “due popoli, due Stati”, che sembrava ridotta a poco più di un rituale fittizio. L’intenzione, ovviamente, è ribadire il diritto di entrambi a una patria e all’autodeterminazione.

D’altra parte, riconoscere i palestinesi come un popolo, quindi come una soggettività politica unitaria e, in prospettiva, come una virtuale autorità sovrana (uno Stato), vuol dire tributargli anche il diritto di designare i rappresentanti della propria volontà collettiva, che di un tale potere sovrano diventano i legittimi depositari.

CHI PROPONE la formula “due popoli, due Stati” ha di solito in mente l’Autorità Nazionale Palestinese, che da anni si candida a rappresentare l’ipotetico Stato di Palestina. Per quanto possa non piacerci, però, il dato di fatto è che è stato Hamas, e non l’ANP, a vincere le elezioni a Gaza e in Cisgiordania nel 2006; e sarebbe oggi quasi certamente Hamas a vincere le elezioni in Cisgiordania (che, per questo, vengono procrastinate da quindici anni). Il dato è paradossale, perché l’organizzazione islamista non ha mai mostrato alcun vero interesse alla creazione di uno stato palestinese accanto a quello di Israele, se non a parole.

UNA POSIZIONE esattamente speculare a quella delle frange più estremiste del governo Netanyahu, che ai non ebrei negano esplicitamente il diritto di avere diritti, raccogliendo proprio per questo un consenso tanto più diffuso quanto più esteso è il terrore.

Proprio come durante la Guerra fredda, insomma, in entrambi i campi il terrore permette al potere di legittimarsi, conquistare la fedeltà delle masse e liquidare ogni opposizione come una forma di alto tradimento. Solo che, a differenza dal passato, a trarre vantaggio dal panico di massa sono ora le fazioni più intolleranti, le più interessate a esasperare il terrore e le più pronte a scatenare una distruzione reale contro ogni ipotesi di compromesso. È un equilibrio del terrore di segno rovesciato, che svuota di senso ogni appello alla moderazione e al dialogo.

MA DA COSA DIPENDE un simile rovesciamento? Quale rete di fattori fa sì che l’incitamento all’odio si affermi non solo e non tanto nelle masse spaventate e rancorose, quanto nel calcolo politico delle fazioni prevalenti sull’uno e l’altro fronte, che si legittimano così a vicenda in una specie di cooperazione distruttiva?

Quello che sembra certo è che a incidere sia la logica segregazionista con cui un unico Stato, Israele, amministra di fatto il territorio su cui vivono due comunità, riservando a una sola delle due ogni vero diritto. Una spinta alla segregazione che ci riguarda da vicino perché, sia pure in tutt’altro contesto, sta animando anche in Europa la reazione ai flussi migratori