La guerra tra Israele e Hamas coinvolge anche la Turchia mentre Ankara prosegue le operazioni militari in Medio Oriente. Inizialmente, il presidente Erdogan aveva dichiarato che era giunto il momento di riconoscere la Palestina come Stato indipendente, con Gerusalemme capitale. Il tono del suo intervento, il 10 ottobre, è diventato più duro: «Negare corrente e acqua a Gaza va contro i diritti umani. Sto cercando di capire come agire come mediatore. Se Israele continua a comportarsi come un’organizzazione, sarà trattato di conseguenza. Colpire i civili non ha alcun senso».

LA POSIZIONE «dura» di Erdogan si accompagna al suo passato: ha sempre fatto di tutto per sviluppare relazioni politiche e commerciali con i governi israeliani. Il caso della nave turca Mavi Marmara nel 2010 (le forze d’assalto israeliane uccisero dieci persone mentre tentavano di portare aiuti umanitari a Gaza) è un ottimo esempio. Fino al 2016 il caso era stato difeso come missione personale dal presidente. Poi, con un’ulteriore inversione di rotta, è stato chiuso con una dichiarazione («Avete chiesto a me prima di partire?»), accompagnata da un risarcimento di 20 milioni di dollari. Il commercio tra i due paesi è cresciuto da 601 milioni di dollari a quattro miliardi dal 2004 al 2017, soprattutto armi ed energia.

Le posizioni degli altri partiti in Turchia sono di vario tenore. Conservatori come il partito Gelecek, Saadet e Huda-Par (parte della coalizione di governo e accusato di essere l’espressione politica della formazione terroristica Hezbollah turca) organizzano una manifestazione «in solidarietà con la Palestina». Anche il leader dell’opposizione kemalista, Kemal Kiliçdaroglu, e due partiti di sinistra d’opposizione, Tip e Ysp, hanno espresso solidarietà con la Palestina. Meral Aksener, leader del partito di opposizione di destra Iyi Parti, ha una posizione diversa: «Hamas compromette la lotta palestinese. Occorre opporsi a violenze di Israele e Hamas».

TUTTO CIÒ accade mentre le forze armate turche bombardano il nord della Siria, il Rojava, per l’ennesima volta dal 2016 a oggi. Stavolta in risposta a un attentato avvenuto davanti alla sede centrale del ministero dell’interno il primo ottobre. «Colpite 194 postazioni e neutralizzati 162 terroristi», ha dichiarato Erdogan. Tuttavia, secondo Mazloum Abdi, comandante delle Forze democratiche siriane, Ankara ha colpito infrastrutture ed edifici delle ong, uccidendo decine di civili. L’operazione era stata annunciata la scorsa settimana dal ministero dell’interno: «L’attentato è legato al nord della Siria. Tutte le postazioni del Pkk/Ypgsono legittimi obiettivi per noi. Consigliamo alle terze parti di allontanarsi».

Una di queste terze parti, le forze armate Usa, in Rojava hanno colpito un drone turco, notizia confermata da Erdogan il 10 ottobre: «Oggi gli Usa inviano una flotta in Israele e ieri hanno colpito uno dei nostri droni. Non siamo alleati? A cosa servono le 20 basi militari statunitensi in Siria? Gli Usa addestrano i terroristi. Stanno creando un bagno di sangue nel Medio Oriente». Quel sangue che sembra destinato a continuare a scorrere in Siria e in Iraq: il parlamento turco discute in questi giorni il rinnovo della «missione militare» in queste regioni. Oltre alla coalizione di governo, una parte dell’opposizione voterà «sì».

LA GUERRA tra Israele e Hamas offre ad Ankara un’opportunità, bilanciando il commercio dell’energia e mascherando l’aggressione in Siria e Iraq.