Dopo la fine della storia, arriva il de profundis sulla lotta di classe
Potremmo sorvolare sull’ultimo libretto di Aldo Schiavone (A Sinistra. Un Manifesto, pubblicato da Einaudi) prendendolo come l’ennesima profezia di “fine del lavoro” fra le tante già clamorosamente smentite dalla storia: ricordate “La fine del lavoro” del futurologo Rifkin? Uscì nel 1995 e fu immediatamente seguito – per l’ingresso della Cina nell’arena mondiale – da quella che si sarebbe rivelata addirittura una quadruplicazione delle forze di lavoro globali. Se non fosse, però, che le tesi di Schiavone vengono riprese da vari zelanti commentatori e perfino da esponenti politici, come Walter Veltroni e Stefano Bonaccini, con voce in capitolo importante nel dibattito che si è aperto intorno al futuro della sinistra italiana e in particolare del Pd, impegnato in un congresso non di routine.
Schiavone fa conseguire da quella che ritiene la vittoria generalizzata del capitalismo, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la fine del lavoro come “valore unificante”, da questa la dissoluzione delle classi e da entrambe il tramonto del socialismo (storicamente scopo e strumento della lotta di classe). Di conseguenza, l’idea di sinistra che residua deve essere disgiunta da quella di classe e deve essere collocata nel solo perseguimento dell’universalità e dell’eguaglianza, quest’ultima, a sua volta, scissa e disarticolata dall’idea di lavoro, ridimensionando anche il significato dell’articolo 1 della Costituzione italiana (dandone un’angusta interpretazione “lavoristica”, quando siamo di fronte a un grande progetto di rifondazione antropologico-strutturale).
Sul capitalismo faccio solo alcune osservazioni: 1) a livello diacronico una sua caratteristica fondamentale è la spinta irrefrenabile al cambiamento, la quale dà luogo a continue metamorfosi, più importanti dello stesso capitalismo in quanto tale; 2) a livello sincronico sussiste una “pluralità” di capitalismi (variety of capitalism) e capirne e apprezzarne le differenti tipologie e strutture consente di realizzare differenziati rapporti capitale/lavoro, una delle cui forme è rappresentata dal capitalismo scandinavo profondamente influenzato dalla socialdemocrazia.
Sul lavoro e sul socialismo mi sembra semplicemente imperdonabile ignorare il pensiero e le analisi assai innovative che si vengono accumulando in Europa (e non solo), per esempio dalla scuola di Francoforte in Germania, a partire da Habermas, e dai suoi accoliti in Francia e in Italia. Axel Honneth costruisce la sua teoria del “riconoscimento” sul lavoro – visto come una pratica altamente simbolica oltre che materiale, attraverso cui i soggetti esperiscono e riconoscono la loro reciproca dipendenza e sviluppano un sentimento di appartenenza comune acquisendo la consapevolezza di essere membri di una comunità sociale – e coltiva un’idea di socialismo lontana dal duplice determinismo dei marxismi tradizionali: quello derivante da una filosofia della storia gravitante sulla lotta di classe come motore automatico della trasformazione e quello economico-tecnologico spinto dalle contraddizioni oggettive fondamentali.
Per Honneth bisogna riferirsi ai primi socialisti i quali, attraverso la scoperta di una contraddizione assai profonda tra un’interpretazione restrittiva della libertà limitata all’egoismo privato e all’individualismo – tipica del liberalismo conservatore – e l’ideale di una comunità “fraterna” e “solidale” intrinseco alle categorie della Rivoluzione francese, erano risaliti alla intensa carica normativa dei principi costitutivi dell’illuminismo e si erano dimostrati perfettamente consapevoli della loro dipendenza normativa dalle innovazioni rivoluzionarie attribuendo al socialismo proprio il compito di risolvere quella contraddizione, realizzando l’essere solidali, cioè non solo “l’uno con l’altro” ma “l’uno per l’altro”.
Si trattava di un compito morale, non limitato alla subordinazione della sfera economica alle direttive sociali o alla questione di una giusta ripartizione delle risorse, perché investente la sfera dei valori e delle strutture primarie, in particolare la reale realizzazione del binomio libertà/fraternità, il che richiedeva di sovrapporre all’idea di imporre un sistema di redistribuzione più giusto. l’accesa speranza di istituire una nuova “forma di vita”.
Sono queste le ragioni per cui Honneth pensa a una sorta di socialismo a forte valenza morale: “L’intuizione normativa alla base del primo socialismo – egli scrive – spinge ben oltre la visione tradizionale della giustizia redistributiva”, perché spinge alla costruzione di “rapporti sociali nei quali le finalità della Rivoluzione francese – libertà, eguaglianza, fraternità – si realizzano in modo tale da coadiuvarsi reciprocamente, risolvendo l’enigma scaturente dalla necessità di conciliare i tre principi”.
Anche oggi, “tramontata l’idea di una tendenza immanente del capitalismo all’autodistruzione e quella di una classe automaticamente portatrice di una società nuova”, un socialismo rinnovato non può non nutrirsi di una “corposa concezione etica”, in grado di indurlo a ricorrere a una ricerca di tipo sperimentale che valorizzi le spinte all’autodeterminazione politica e i “bisogni di intimità emotiva e fisica”, pensandosi come “forma di vita ‘sociale’” incardinata sul binomio libertà/solidarietà esaltante la relazionalità e l’intersoggettività, dense di potenzialità inespresse.
Tutto ciò comprende l’eguaglianza ma va oltre, perché solo in un disegno nuovo e simbolicamente motivato di sviluppo umano, oltre le mere istanze redistributive, la problematica della diseguaglianza può evitare di concentrarsi quasi esclusivamente sul destino dei poveri, degli “ultimi”, dei “diseredati” e fare spazio all’attenzione ai bisogni e alle crescenti difficoltà dei ceti medi, i quali rimangono pur sempre “il nerbo della democrazia”.
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