Dopo il flop elettorale Meloni manda in onda il suo nervosismo
Post voto Il soliloquio social: attacchi all’opposizione e difesa dell’autonomia. Ma adesso la premier teme di perdere la battaglia del premierato
Post voto Il soliloquio social: attacchi all’opposizione e difesa dell’autonomia. Ma adesso la premier teme di perdere la battaglia del premierato
Dire «nervosa» è quasi esagerare in understatement. Il videomessaggio che Giorgia Meloni ha affidato ieri a un video su Facebook particolarmente scarno, corredato solo dal tricolore alle spalle, denotava una preoccupazione molto vicina allo spavento. La premier era effettivamente nera per l’esito dei ballottaggi, che peraltro ha completamente ignorato nei 14 minuti e passa di soliloquio. In realtà un solo risultato la ha davvero turbato, quello di Perugia, che promette male anche per le imminenti regionali umbre. Neppure una parola neppure sull’uscita del presidente del Senato La Russa a favore dell’eleiminazione del doppio turno nelle elezioni comunali. Del resto quel progetto è reale, la maggioranza medita di procedere in autunno: la premier non poteva sconfessare La Russa e neppure confermare le sue parole, pronunciate nel momento più intempestivo, subito dopo una sconfitta.
MA IL CRUCCIO vero sono i referendum: quello sull’autonomia soprattutto. Per il contraccolpo elettorale nel sud ma ancora di più per il rischio che riverberi con esiti esiziali sulla prova che davvero le sta a cuore: il premierato e la consultazione popolare sul medesimo. Quando si sente in difficoltà Giorgia Meloni attacca e possibilmente azzanna. Lo ha fatto anche ieri. La lunga difesa dell’autonomia, al di là dei contenuti, aveva un significato preciso: assumersi personalmente la responsabilità di quella riforma intesa sinora e a ragion veduta come leghista, farsene garante mettendo sul tavolo il peso della sua popolarità e della sua credibilità personali. E allo stesso tempo chiamare la sua gente, il suo elettorato, alla guerra santa contro un’opposizione «irresponsabile», che «usa toni da guerra e civile» e vorrebbe vederla «massacrata e appesa a testa in giù» solo «per difendere lo status quo». In sé la difesa dell’autonomia differenziata si può dividere in due parti: una efficace, l’altra molto di meno. Nel ricordare la piena corresponsabilità del centrosinistra nella marcia che ha portato alla riforma di Calderoli, Meloni ha avuto gioco sin troppo facile. «Era già nel programma di Occhetto trent’anni fa. Era più avanti di Elly», ha ricordato. L’autonomia di oggi, poi, è solo l’attuazione, sin qui rinviata, della riforma costituzionale del Titolo V imposta a maggioranza dal governo Amato nel 2001, ma preparata da quelli precedenti, Prodi e D’Alema. Infine a chiederne l’applicazione erano state negli anni scorsi non solo le Regioni di destra ma anche molte governate dal Pd, dall’Emilia di Bonaccini addirittura alla Campania di De Luca, «quello che oggi si straccia le vesti».
QUANDO PERÒ passa a spiegare perché la riforma, oltre che voluta a suo tempo dalla sinistra, è anche buona l’arringa incespica. La premier mette le mani avanti. Rivendica i Lep, Livelli essenziali di prestazione, «che nessuno potrà violare». Parla del testo appena approvato come di una mera cornice che non può ancora essere giudicata: «È un percorso che si definirà nei prossimi anni. Le obiezioni andranno fatte guardando al merito quando si materializzerà, non a scatola chiusa». Frena sull’automatismo della devoluzione di competenze: «Se una Regione dimostra di essere efficiente lo Stato, a determinate condizioni, può decidere di affidarle altre competenze». Dovrebbe essere una orgogliosa rivendicazione: suona come un tentativo di minimizzare e chiamare in correità la controparte. Inevitabile che sia così. L’autonomia, per quanto la premier abbia capito di doversene fare testimonial, non è la sua riforma. È una cambiale pagata alla Lega per blindare il premierato che ora rischia di indebolire proprio la crociata per l’elezione diretta del premier.
A MAGGIOR RAGIONE se il capo dello Stato, col quale i rapporti sono oggi vicini al minimo storico, deciderà di farsi sentire. Il testo è ancora allo studio degli uffici legislativi, Mattarella non lo ha ancora esaminato e fino a metà luglio non muoverà un dito. Poi però tutto è possibile, e anche solo la decisione di rinviare alcuni articoli o di accompagnare la firma con qualche tipo di messaggio sarebbe un ulteriore voragine sulla strada già accidentata di una leader politica che nella partita dei referendum si gioca ormai davvero tutto.
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