Se in questi anni si parla delle potenzialità delle sostanze psichedeliche, in gran parte lo si deve alle ricerche del neuroscienziato inglese Robin Carhart-Harris, che nel 2012 ebbe l’idea di mappare con la tecnologia del brain imaging (un sistema di osservazione che consente di studiare il flusso ematico e il consumo di ossigeno) un cervello umano sotto l’effetto degli psichedelici.

Inizialmente gli esperimenti di Carhart-Harris testarono le reazioni all’Mdma e alla psilocibina (il principio attivo dei “funghi magici”), ma il test che fece epoca fu quello del 2016, quando furono indagate le reazioni innescate dall’Lsd. Con l’acido il cervello pareva infiammarsi, mostrando connessioni inedite e intensissime. Durante il picco di un’esperienza psichedelica i neuroni della corteccia visiva, attivi in zone ristrette, iniziano a dialogare con tutto il cervello, comprese aree con cui non hanno nulla a che fare.

Che succede? Per capirlo bisogna sapere che il cervello è dotato di una rete di controllo gerarchica, il Dmn (Default Mode Network), necessaria a gestire l’enorme traffico degli impulsi in arrivo, quindi organizzarli e permettere all’individuo di elaborare – sulla scorta di automatismi rinforzati dall’esperienza – i pensieri e le decisioni da prendere. Sotto l’effetto di queste sostanze la centralina viene temporaneamente disattivata, spingendo la mente a battere nuove strade.

Si tratta di quella che Aldous Huxley ne Le porte della percezione chiamava «valvola di riduzione»: una dinamica gravida di implicazioni terapeutiche. Forme di sofferenza come la depressione permangono perché è impossibile scalfire tali automatismi: l’ego dissolution invece può portare la psiche a inaugurare una coscienza liberata, pronta a recepire stimoli che altrimenti rifiuterebbe.

Gli psichedelici sembrano agire in due direzioni: da un lato diminuendo l’afflusso sanguigno all’amigdala, ghiandola coinvolta nell’elaborazione di emozioni come paura, rabbia e ansia; dall’altro bloccando il Dmn, cui sono affidate anche attività introspettive, come i ricordi e le emozioni. Nei depressi quest’ultimo è iperattivo, assorbito in una costante ruminazione che conduce a una spirale di pensieri negativi. Gli psichedelici sembrano in grado di far deragliare l’ego dai soliti binari, permettendogli di incrinare gli schemi che tengono la coscienza prigioniera di sé.

Recentemente, sempre all’Imperial College, i ricercatori stanno testando le proprietà antidepressive di un’altra sostanza, la Dmt (una triptammina psichedelica presente in molte piante e nel fluido cerebrospinale degli umani), nonché l’ingrediente visionario dell’Ayahuasca. Una differenza è che la durata di un trip con la Dmt è molto più breve. Lo studio condotto sulla Dmt dal team capitanato da Chris Timmermann è al momento il più completo circa l’azione degli psichedelici sul cervello.

A spiegarci perché è Tommaso Barba, un ricercatore dell’Imperial College al lavoro su questo progetto. Barba afferma che in questo studio sono stati per la prima volta svolti contemporaneamente sia l’elettroencefalografia che la risonanza magnetica funzionale. «Un’infusione di Dmt di 15 minuti ha aumentato la connettività tra le aree cerebrali: anche stavolta si sono viste comunicare più efficacemente zone solitamente estranee. Più o meno quello che succede con Lsd e psilocibina, ma in questo caso si è riusciti a osservare il meccanismo con maggior risoluzione».

Sono simili anche le potenzialità terapeutiche? Barba dice che a tal riguardo si è da poco concluso uno studio sul potenziale antidepressivo della Dmt a opera della startup inglese Small Pharma (una piccola casa farmaceutica che scommette sull’adozione di queste sostanze nel ventaglio degli psicofarmaci), e benché si tratti di un trial iniziale, con 34 partecipanti, «si è visto che un’infusione di Dmt ad alto dosaggio, combinata con preparazione e integrazione psicoterapeutica, ha proprietà antidepressive. Dopo una settimana il 40% dei pazienti erano in remissione completa dalla depressione, in comparazione col 10% di quelli che stavano nel gruppo del placebo. La remissione era rimasta analoga anche tre mesi dopo».

È presto per paragonare questi dati all’efficacia della psilocibina, aggiunge Barba, «mi viene da pensare che con la psilocibina, restando di più nello stato psichedelico, aumenta la possibilità di creare insight psicologici: in un trip più lungo c’è più tempo per riflettere sulla propria vita, mentre la Dmt ha una dimensione transpersonale, più vicina a un’esperienza mistica». Resta che come antidepressivo potrebbe funzionare, e la durata più breve può essere un vantaggio.