Diventare genitori nella New York trans di Torrey Peters
Intervista Parla l'autrice di "Detransition, Baby", il romanzo edito da Mondadori che narra le sfide esistenziali di tre trentenni di New York, oltre il binarismo di genere
Detransition, Baby, edito da Oscar Mondadori Vault nella traduzione di Chiara Reali (pp. 420, euro 20), è il primo romanzo di Torrey Peters, autrice già di diversi racconti lunghi mai pubblicati in Italia, ed è la storia di tre persone che cercano di formare una famiglia. Reese è una donna trans con un passato da baby sitter e un presente da promoter nella moda. Ames per un periodo della propria vita ha vissuto da donna trans ma dopo una serie di eventi ha deciso di sospendere la transizione e tornare a vestire panni maschili. Katrina, una donna cisgender, è la superiore di Ames e intraprende una relazione con lui, ignorando alcuni aspetti del suo passato. In una complessa trama emotiva, a cui fa da sfondo una New York caotica ed effervescente, questi tre personaggi tentano di instaurare un equilibrio relazionale che possa contenere anche il desiderio di avere figli.
Il racconto delle vite delle persone trans ruota ancora molto intorno a cliché e semplificazioni. Detransition, Baby racconta una vicenda sentimentale intricata e per questo ricca di contraddizioni e sfumature. Problematizzare la realtà, rifuggire gli stereotipi, è importante per la crescita della comunità lgbtq e anche per la sua capacità di auto-narrarsi.
La letteratura è diversa dall’attivismo, sono mezzi diversi con ruoli diversi e complementari. Come artista esigo di avere il diritto di sbagliare. Se voglio scrivere personaggi complessi, anche loro devono avere la possibilità di sbagliare, senza avere la responsabilità di rappresentare tutte le persone trans. Mi interessa raccontare come ci si sente a essere una persona trans, non dettare regole su come si debba vivere, cosa che invece fanno tutti gli altri mezzi che non sono letteratura.
Se ho la possibilità di dedicarmi a narrazioni complesse e personaggi fallibili è grazie allo spazio creato da chi fa attivismo, ma la letteratura è una cosa diversa. Non voglio preoccuparmi che se scrivo di un personaggio che pratica sex work, o che si droga, o che va a letto con un uomo sposato, la gente penserà che tutte le donne trans sono così. Voglio che i miei personaggi possano essere se stessi, nel bene e nel male. Paradossalmente è il modo migliore perché chi legge possa immedesimarsi in loro. Per esempio: il libro è dedicato alle donne che hanno divorziato, perché il divorzio ti costringe a rimettere in discussione la tua vita, dopo avere pensato magari per anni che sarebbe andata in un certo modo. Un’esperienza molto simile a quella delle persone trans.
La scelta della parola “detransizione” nel titolo è coraggiosa, soprattutto perché alcune frange del femminismo storico, le cosidette Terf (acronimo che sta per Trans Exclusionary Radical Feminist) usano i casi di detransizione come argomenti per invocare un’ulteriore restrizione dei diritti delle persone trans. La detransizione è un percorso possibile e non dovrebbe essere demonizzato.
L’ho fatto proprio per rimarcare che la detransizione non è un concetto che appartiene alle Terf. Per detransizionare prima devi avere fatto una transizione di genere, devi averla presa in considerazione come possibilità. Chi detransiziona non lo fa perché “ha fatto un errore”. Lo fa perché vivere come persona trans è piuttosto difficile. C’è chi perde la famiglia, il lavoro. E si ritrova a dover compiere una scelta razionale, a dover decidere se tenersi il lavoro o vivere nel genere che ha scelto.
Le Terf strumentalizzano l’idea del rimpianto. Secondo loro non si dovrebbe cambiare genere perché poi ci si potrebbe pentire della scelta fatta. E allora? È così grave? Siamo persone adulte. Capita di fare delle scelte, capita di avere dei rimpianti. C’è chi si trasferisce per lavoro, e poi le cose non funzionano e cinque anni dopo si ritrova punto e a capo. Significa avere perso cinque anni della propria vita? Perché è quello che dicono a chi ci ripensa: hai perso cinque anni della tua vita. Se ci sta bene che la gente si trasferisca per lavoro, perché non dovremmo lasciare a chiunque la libertà di giocare col proprio genere? Lasciare che si strumentalizzi la detransizione lacera la nostra comunità perché ci impedisce di parlarne liberamente, di raccontare anche questa sfumatura della nostra esperienza.
A mio parere, l’unica reazione possibile è non nascondere niente. Per questo ho scelto di mettere la detransizione in copertina. Non mi piace essere infantilizzata.
Le persone che hanno detransizionato possono essere sexy, possono vivere una vita nella quale sono oggetto di desiderio, in cui sono felici. Perché dovremmo trasformare le persone in parabole negative? Adulte e adulti possono commettere sbagli e pentirsene. L’idea che non si possa dubitare del proprio genere, che si debba prevedere il futuro, è un peso ingiusto che viene addossato alle persone trans. Le persone cis cambiano continuamente il loro genere. Oggi sono più femminile, domani un po’ meno. Penso che chiunque debba avere questa libertà, e se per farlo bisogna rompere delle convenzioni di genere va bene così.
In Italia c’è una scarsa diffusione di storie che hanno come protagoniste persone trans. Le poche che ci sono ci concentrano spesso sulla fase dell’adolescenza. Detransition, baby offre invece una prospettiva adulta sulle vicende di persone trans.
In genere il pubblico è molto interessato alla transizione, nel momento in cui avviene. Nella letteratura “Young Adult” (ndr, che racconta storie di adolescenti) le questioni affrontate sono sempre: I miei genitori mi accetteranno? Avrò mai un ragazzo? Chi sono? La letteratura YA fa un buon lavoro nel raccontare l’esperienza degli anni di transizione. Ma cosa succede quando sei più grande? Cosa succede quando vivi già come una donna da molto tempo? All’improvviso ti ritrovi con dei problemi da adulta. Ti chiedi cose come, devo telefonare alla mia famiglia? Dove trovo il senso della vita a trent’anni? Cosa succede se non ho modelli che mi facciano stare bene?
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Alle selezioni di Miss Italia insieme ai ragazzi transNon abbiamo molta letteratura trans adulta perché non ci sono molte persone trans adulte che non siano state discriminate, che non abbiano pensato a o tentato il suicidio, che non si sono dovute nascondere, che non hanno avuto a che fare con le conseguenze dell’Hiv. Per cui è difficile che abbiano avuto il tempo per leggere e, parallelamente, non sono viste come un pubblico in cerca di un’identificazione nei personaggi dei libri.
Ho provato a scrivere un libro che parli alle persone trans adulte, che riconosca che essere persone trans adulte vuol dire avere a che fare con questioni come il divorzio, i figli, l’impegno per costruire una famiglia. C’è un parallelismo tra i grandi cambiamenti della vita e l’esperienza trans, per cui spero che ci possa essere più spazio perché altri libri trans vengano letti dalle persone trans ma anche dalle persone cis, che non leggono per imparare qualcosa, ma perché la letteratura parla direttamente a loro.
In Detransition, Baby, si tende a usare la parola “transessuale” al posto della parola “transgender”, che è quella attualmente consigliata da chi si occupa di linguaggio corretto.
Ho scritto questo libro mentre vivevo a Brooklyn, pensavo che l’avrebbero letto solo i miei amici e le mie amiche, per cui inizialmente ho usato lo stesso linguaggio che usavo con loro. Molte cose non sono politicamente corrette nel testo. Uso “transessuale” invece di “transgender” perché lo uso con la mia cerchia, e perché mi diverta che contenga la parola “sesso” . Portando in giro il libro e le sue traduzioni mi è capitato di sentirmi chiedere quale sia il modo corretto per parlare delle persone trans. La risposta è che non lo so – il mio è un romanzo, non un trattato sul linguaggio corretto..
Molto spesso, in italiano, le parole che la comunità trans usa per raccontarsi sono mutuate dall’inglese. Per quella che è stata la sua esperienza, con il romanzo che è stato tradotto in 12 lingue, è così anche negli altri paesi?
È vero, gli Stati Uniti esportano molto linguaggio trans, e in questo modo si crea una descrizione egemonica dell’esperienza vissuta. Per esempio molte delle lotte trans riguardano i pronomi, il modo in cui si usano per rivolgersi a qualcuno in maniera corretta. È una cosa molto specifica dell’inglese. Il contesto statunitense può essere piuttosto miope, soprattutto quando le lotte per i diritti delle persone trans vengono collegate solamente a questioni di linguaggio.
In Europa ho scoperto che in vari contesti linguistici, meno intaccati dall’egemonia dell’inglese, la comunità trans locale ha inventato parole e concetti che funzionano benissimo. Per esempio, in Polonia, per tradurre l’espressione “baby trans” (si usa anche in Italia per indicare persone molto giovani, all’inizio della transizione) hanno usato una parola che si potrebbe tradurre come “fagotto trans” (trans bundle), dove fagotto, bundle, è la stessa parola che si usa per parlare di un bambino in fasce. Ma ha anche una connotazione religiosa, perché richiama Gesù Bambino, e quindi la rinascita. Funziona piuttosto bene.
Ci sono altre situazioni più interessanti degli Stati Uniti. Per esempio Le cattive, dell’argentina Camilla Sosa Villada, scritto in stile realismo magico. È un libro che è in conversazione diretta con Detransition, Baby. Parlano entrambi di maternità, di come si vive da adulte. Il mio libro si arricchisce se letto insieme a Le cattive.
Ha iniziato a scrivere Detransition, Baby pensando di rivolgerti alla tua cerchia di amiche e amici. Come ha influito questa scelta sui contenuti del romanzo?
Mentre scrivevo per me è stato importante immaginare un pubblico trans, non solo per una ragione politica ma anche artistica. Ho mututato quest’idea da scrittrici e scrittori neri. Per esempio Toni Morrison scriveva esplicitamente per le donne nere e quindi non aveva bisogno di spiegare ogni cosa, e questo le ha permesso di incanalare tutte le sue energie nella scrittura. Io e la mia cerchia, scrivendo tra noi, abbiamo tentato di fare una cosa simile. Quando scrivo per un’altra donna trans non devo fermarmi a dare spiegazioni, e posso così dedicarmi completamente alla narrazione. Sarebbe noioso se scrivessi cose tipo, prendo gli ormoni tutte le settimane: le altre donne trans lo sanno già. Scrivendo in questo modo è possibile alzare il livello di ciò che si può scrivere, si scrive molto meglio e lettrici e lettori lo apprezzano.
Nel romanzo si parla di maternità declinandola in diversi modi che hanno a che fare con la creazione di una famiglia ma anche col tema della cura in senso più ampio. Per lei cosa significa?
Soprattutto a New York le donne trans più grandi aiutano quelle più giovani, assumendo per loro letteralmente il ruolo di madri trans. Lo sono anche io, ho delle “figlie” trans. È molto appagante. Le donne trans più anziane non hanno avuto la possibilità di scrivere libri, potevano solo cercare di sopravvivere giorno per giorno. Non si ponevano neanche il problema della maternità. Adesso è diverso. Per cui ho dovuto prendere le donne cis come riferimento, donne che trovano il senso della loro vita nel matrimonio, nelle relazioni, nel lavoro, ma anche nel crescere figli e figlie. Le prime tre opzioni mi sembravano possibili, per me, ma non quella di avere figli.
Ho scritto questo libro per rispondere a questa domanda: voglio avere figli? Come? Scrivendone ho potuto giocare con l’idea e immaginare possibilità. La cosa buffa è che chi ha letto il libro ha pensato che volessi disperatamente avere un figlio, ma io stavo davvero semplicemente cercando di capirlo, e quello che ho capito alla fine della scrittura del romanzo è che di figli non ne volevo. Appena l’ho capito mi sono innamorata e ho poi sposato una donna che ha un figlio di nove anni, e così mi sono ritrovata a essere madre.
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