«Non c’è edificio che non sia crollato o danneggiato. Ci sono dispersi sotto le macerie, ma non ci sono soccorritori. Nelle prime ore sentivamo voci arrivare da sotto le macerie. Tante di quelle voci non le sentiamo più. Migliaia di persone in questo momento si stanno chiedendo dove sia lo Stato».

NURAY TÜRKMEN è una politica dell’Hdp, il Partito democratico dei Popoli, la sinistra curda e turca sulla cui testa pesa da mesi la possibile messa al bando. È tra i membri del Crisis Coordination del partito, da due giorni tenta di alleviare il dolore delle città colpite. Tante sono città a maggioranza curda, altre alevite, altre turche.

Ci racconta di aiuti che non arrivano, di «persone che chiedono solo cibo e acqua, che chiedono una tenda. Sono state lasciate al freddo, affamate e assetate. Sciolgono la neve per berla: quella che esce dalle fontane è diventata torbida, fangosa. Accendono fuochi per strada, appendono coperte agli angoli degli edifici danneggiati per ripararsi dal freddo».

Membri e sostenitori dell’Hdp sono arrivati ovunque ma non possono fare molto. Anche a causa dello stop imposto dal governo: tutti gli aiuti, che siano tende, vestiti o denaro, devono passare per l’Afad, l’Agenzia per i disastri e l’emergenza, una sorta di protezione civile che in Turchia monopolizza gli aiuti: «Abbiamo mobilitato subito le tante organizzazioni della società civile che sono attive nel sud-est – ci spiega Fayiz Yagizay, rappresentante dell’Hdp a Strasburgo – per organizzare i primi aiuti, per raccogliere cibo, coperte. Ma il governo ha imposto che tutto quanto raccolto sia consegnato all’Afad. Così si rallenta l’intero processo. Non c’è tempo e l’Afad non riesce a coprire tutta l’area colpita. Ci sono aree dove nessun soccorso è ancora arrivato, edifici che non sono stati scavati da due giorni».

L’HDP, per bocca dell’ex co-leader incarcerato dal novembre 2016, Selahattin Demirtas, ha chiesto al governo di mobilitare l’esercito: «Abbiamo un milione di soldati che potrebbero avviare un’operazione vasta in pochissimo tempo – spiega Yagizay – Hanno tende, coperte, veicoli per agire subito. Ma solo una parte dell’esercito, poche ore fa, è stata mobilitata».

LA GENTE PROVA a fare da sé ma il livello di devastazione è talmente esteso che la corsa contro il tempo pare già persa in partenza. E l’impressione che fosse in parte evitabile avvelena gli animi, li comprime. Soldi scomparsi, palazzi tirati su con le mazzette, in fretta e senza regole. «Dopo il sisma del 1999, il governo ha introdotto la “tassa sul terremoto” – continua Yagizay – In vent’anni sono stati raccolti miliardi di dollari per la prevenzione. Ancora oggi non sappiamo dove quei soldi siano finiti».

A novembre 2020, secondo lo stesso governo, la tassa sul terremoto aveva permesso di mettere insieme un tesoretto da 73 miliardi di lire turche, circa 12 miliardi di dollari.

UN NUMERO EMERSO mentre l’inamovibile ministro degli interni Suleyman Soylu pubblicamente diceva che Ankara si stava preparando a un terremoto di magnitudine 7,5. Di quei soldi non ha dato conto. Ci hanno pensato i colleghi: il ministero delle Finanze, nel 2020, ha parlato di denaro speso per la sanità pubblica senza dare dettagli; quello dell’ambiente di un 18% dei fondi usati per «trasformazione urbana», tra sostegno all’affitto per istituzioni e individui, mutui, sfratti.

Intanto però il settore edilizio non ha rallentato, ha macinato appalti e progetti: «Esistono standard severi in edilizia – aggiunge Yagizay – Ma non sono rispettati. I costruttori usano materiali di scarsa qualità e ne usano pochi. Sono crollati palazzi nuovi, qualcuno aveva un anno di vita. È il sistema di corruzione che definisce gli appalti: il governo li concede in cambio di sostegno politico, con le compagnie vicine alle autorità che poi versano “donazioni” a fondazioni o enti legate al governo».

UN SISTEMA PARTE di una strategia economica clientelare (regalare i grandi lavori pubblici ad aziende vicine alla famiglia Erdogan e al partito di governo, l’Akp) e di obiettivi politici (la maxi-gentrificazione del sud-est curdo che ha svuotato i centri delle grandi città dei suoi abitanti).

In tale contesto lo stato d’emergenza dichiarato ieri da Erdogan non promette nulla di buono, visti i precedenti e le imminenti elezioni, il 14 maggio: «Ovviamente siamo preoccupati – continua Türkmen – In un paese che vive già una crisi economica, politica e sociale non possiamo escludere che il governo usi il terremoto per calcoli politici».

L’ultimo stato d’emergenza, dopo il tentato golpe del 2016, ha permesso all’Akp di occupare le istituzioni. Nel sud-est si è tradotto nel commissariamento di decine di comuni e l’arresto di migliaia tra sindaci e membri dell’Hdp: «A causa dei commissariamenti, non possiamo oggi usare le strutture comunali per i soccorsi – conclude Türkmen – Gli aiuti raccolti ci sono stati confiscati dai governatorati di distretto. Ci giungono notizie di veicoli fermati sulla via delle zone colpite».

La gente si chiede dove sia lo Stato e lo Stato mostra una delle sue facce peggiori.