Ci vorranno mesi, forse anni, per risollevare completamente il Rio Grande do Sul, flagellato dalla fine di aprile a metà maggio dalle alluvioni più catastrofiche della sua storia: 175 morti, 475 municipi su 497 finiti sott’acqua, più di 600mila persone sfollate, 206mila imprese agroalimentari in ginocchio e uno scenario apocalittico per le strade. Senza contare gli enormi danni economici, stimati in 25,5 miliardi di reais.

EPPURE, in alcuni settori del governo Lula, non si riesce a fare due più due: cioè a ricondurre l’inedita gravità delle inondazioni nello stato gaucho – oltre che alla scandalosa mancanza di prevenzione da parte del governatore Eduardo Leite – al riscaldamento globale provocato dall’aumento delle emissioni climalteranti. E sì che non mancano certo gli studi che indicano quanto quel nesso sia stretto, come per esempio quelli divulgati dal Climate Central – un’organizzazione che riunisce scienziati e giornalisti impegnati nel settore della climatologia -, secondo cui i cambiamenti climatici hanno già raddoppiato il rischio di alluvioni nel Rio Grande do Sul e la situazione non farà che peggiorare nei prossimi 30 anni.

Ciononostante, quasi non aveva ancora smesso di piovere e già la nuova presidente della Petrobras, Magda Chambriard, spingeva per lo sfruttamento del petrolio nel bacino di Foz do Amazonas, quello che i sostenitori del progetto preferiscono chiamare “margine equatoriale” perché suona più asettico e meno compromettente (la foce del Rio delle Amazzoni, dicono, dista 500 chilometri).
Scelta da Lula per rimpiazzare Jean Paul Prates – licenziato in seguito a una lunga disputa tra l’impresa e il governo sul pagamento dei dividendi agli azionisti -, la nuova presidente condivide tuttavia con il suo predecessore la passione per lo sfruttamento petrolifero fino all’ultima goccia, respingendo l’associazione tra la catastrofe nel Rio Grande do Sul e l’impatto dei combustibili fossili sul clima. In quello stato, ha ricordato, c’era già stata una «gigantesca» alluvione nel 1941, quando il Brasile non aveva ancora il petrolio. E anzi, ha aggiunto già nella sua prima intervista il 27 maggio, la Petrobras «deve accelerare lo sfruttamento degli idrocarburi per la propria sicurezza energetica», guardando a nuove importanti frontiere come nel bacino di Foz do Amazonas.

Grato per l’assist, il ministro delle Miniere e dell’Energia Alexandre Silveira, che il petrolio vuole produrlo a qualsiasi costo «finché il Brasile non diventerà un paese sviluppato», ne ha subito approfittato per fare ancora una volta pressione sul governo: mentre il Brasile perde tempo con la mancata autorizzazione ambientale da parte dell’Ibama, ha detto, «i nostri vicini della Guyana succhiano con la cannuccia le ricchezze del Brasile». Un frase oltretutto diplomaticamente infelice che il ministro si è poi affrettato a chiarire: «Quello che intendevo dire è che la Guyana è avanzata in maniera assai rapida in questa regione geologica» e che il Brasile dovrebbe prendere esempio dalla «velocità con cui il paese vicino ha saputo attrarre tanti investimenti».

E MENTRE LULA  ancora tace – dopo aver inviato però nei mesi scorsi segnali inequivocabili a favore dell’esplorazione petrolifera nel “margine equatoriale” – la ministra dell’Ambiente Marina Silva porta avanti ostinatamente la sua battaglia a favore della transizione ecologica: «Tutto ciò che accade in relazione al cambiamento climatico ha a che fare con l’emissione di CO2, dovuta alla deforestazione e alla trasformazione dell’uso del suolo, ma soprattutto all’impiego di carbone, petrolio e gas», ha dichiarato giovedì scorso in un’intervista a GloboNews. E poiché «l’impegno assunto» dai paesi produttori di petrolio alla COP28 è stato quello di realizzare la transizione energetica per la fine dei combustibili fossili, anche il governo Lula, ha detto, «deve fare i suoi compiti a casa».

Di compiti, tuttavia, il presidente deve farne ancora parecchi. Tra i popoli indigeni che protestano per le mancate demarcazioni delle loro terre e il Movimento dei senza terra che denuncia l’assenza di misure a favore della riforma agraria – «il governo non sta facendo nulla, è una vergogna», ha criticato João Pedro Stedile -, sono proprio i suoi alleati tradizionali a mostrarsi scontenti. Ma almeno nei confronti del settore universitario pubblico, in sciopero da più di 50 giorni, i compiti il presidente li ha finalmente fatti, annunciando un aumento del bilancio delle università federali di 5,5 miliardi di reais.