Editoriale

Diritti, i grandi nascosti sotto la bandiera di Meloni

Diritti, i grandi nascosti sotto la bandiera di MeloniPartecipanti al corteo del Pride di Roma del 2023 foto LaPresse

L'analisi In Puglia i G7 fingono che rispetto alle conclusioni di Hiroshima non sia cambiato granché. Conviene a tutti, ma soprattutto conviene a Giorgia Meloni

Pubblicato 5 mesi faEdizione del 15 giugno 2024

Cortesie per gli ospiti: location mozzafiato, chef stellati e Italian style. Cortesie per la padrona di casa: sull’Italian style generazione Giorgia – madre e cristiana – chiudiamo un occhio o tutti e due.

L’arretramento su aborto e diritti Lgbtq+ viene alla fine fatto passare dai Grandi riuniti in Puglia con nonchalance nonostante le iniziali resistenze Usa e il plateale «rammarico» di Macron. Facciamo finta che nulla cambi rispetto al testo firmato l’anno scorso a Hiroshima: conviene a tutti, ognuno con i suoi guai domestici. Conviene soprattutto alla premier italiana, che riesce a non ammainare la sua bandiera. Una vecchia storia, sempre uguale a se stessa.

L’11 SETTEMBRE 2023 il sito della presidenza del consiglio comunicava che «in occasione della sua visita nello Stato del Qatar» la premier Giorgia Meloni aveva incontrato l’emiro Tamim Bin Hamad Al Thani per «rinsaldare le eccellenti relazioni bilaterali e il rapporto personale». E che nel corso del colloquio ci si era soffermati «sulle importanti opportunità di collaborazione per le nostre imprese».

Era la stessa Giorgia Meloni che poco più di due anni prima, luglio 2021 – ma certo, non aveva ancora fatto il suo ingresso trionfale a palazzo Chigi – accusava: «Nel governo Draghi c’è una grande contraddizione e ipocrisia sui temi della lotta all’omofobia. Presenterò un atto in parlamento in cui chiederò al governo di fermare ogni forma di accordo commerciale con i Paesi in cui l’omosessualità è un reato, come il Qatar. A me le ipocrisie danno molto fastidio».

Delle contraddizioni nelle quali inciampano i leader politici quando passano dai banchi dell’opposizione agli scranni del governo sono piene le cronache. Dell’ipocrisia invece l’attuale presidente del consiglio è una recordwoman. Nascondersi dietro il benaltrismo è una specialità sua e dei suoi ministri («e allora i Khmer rossi?…»).

Il governo Draghi nel giugno 2021 aveva aggiunto la sua firma a una dichiarazione di 13 Paesi europei contro la legge ungherese anti-Lgbtq+, quella per vietare la cosiddetta «propaganda omosessuale» nelle scuole, nella pubblicità, nei programmi tv rivolti ai minori. Di qui la reazione di Meloni: e allora il Qatar? E allora Peppa Pig?, aveva prontamente abbracciato la dottrina Orbán il Fratello Mollicone durante la campagna elettorale per le politiche (in una puntata del popolarissimo cartone animato compariva un orsetto polare con due mamme).

INUTILE DIRE CHE il governo Meloni (come Polonia, Romania, Bulgaria, Cipro, Croazia, Estonia, Lettonia, Lituania, Repubblica Ceca e Slovacchia) non ha appoggiato il ricorso successivamente presentato dalla Commissione Ue contro la legge ungherese. Una legge che Ursula von der Leyen aveva definito «vergognosa» perché «praticamente l’omosessualità viene posta a livello della pornografia» e «non serve alla protezione dei bambini, è un pretesto per discriminare».

Sulle tematiche Lgbtq+ il governo Meloni si è distinto in più occasioni in Europa e in Italia: alla crociata contro la mamma disegnata in Peppa Pig corrisponde quella contro i figli in carne ossa di coppie omogenitoriali, è guerra alla carriera alias nelle scuole e ai farmaci per gli adolescenti transgender. L’educazione sessuale e affettiva resta tabù.

Nel maggio scorso, l’Italia è stata tra i paesi europei (non esattamente i più illuminati sul tema) che si sono rifiutati di approvare la dichiarazione sull’avanzamento dei diritti umani per le persone Lgbtiq+ predisposta dalla presidenza di turno belga del Consiglio Ue presentata in occasione della giornata internazionale contro omofobia, transfobia e bifobia. Un figurone. La stessa splendida prova l’Italia la fornisce da Borgo Egnazia alla vigilia del Pride di oggi a Roma. I Fratelli di Giorgia l’altro giorno erano assai preoccupati perché le botte in parlamento rischiavano di danneggiare la fulgida immagine del Paese di fronte ai grandi del mondo. Peccato che i picchiatori della destra in parlamento non facciano altro che rispecchiare l’arretratezza culturale, sociale e politica che esprime la compagine guidata dalla prima donna premier del Paese.

L’ITALIA NON HA FIRMATO la dichiarazione europea sui diritti Lgbtq+ per lo stesso motivo per cui ha deciso di annacquare il documento finale del G7 pugliese rispetto a quello di Hiroshima. Nel testo dello scorso anno compariva (come nell’affossato ddl Zan) la bestia nera di Meloni&co, «l’identità di genere», alla base di quella fantomatica «ideologia gender» inventata dalle destre reazionarie dell’orbe terracqueo per giustificare le pulsioni omotransfobiche e rassicurare la base e l’elettorato più retrivi e nostalgici (non solo vecchi arnesi, come dimostra l’inchiesta di Fanpage). E dal documento del G7 pugliese scompaiono anche la parola «aborto» e il riferimento al ruolo dell’istruzione.

Ovviamente per la premier sono tutte fake news. Nessun arretramento rispetto all’aborto (e i prolife nei consultori?), nessuna esitazione sui diritti Lgbtq. Giorgia Meloni non è mica una Vannacci qualunque… Tanto basta, evidentemente, anche alla presidente uscente della Commissione Ue, che a un passo dal secondo mandato alla guida dell’Unione non sembra preoccupata dalla tendenza orbaniana di quella che resta una sua importante interlocutrice.

Contraddizioni? Ipocrisia? Improvviso allarme per l’avanzata della «teoria gender»? O paura di non agguantare il bis per colpa di Peppa Pig?

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