Il conflitto in Medio oriente determina alcune conseguenze emotive nella coscienza comune del nostro paese, tra cui la sensazione di minaccia per una possibile espansione bellica, il desiderio di accelerare la fine della tragedia e l’angoscia per il numero crescente di vittime civili.

L’insieme di queste fratture emotive ricade dolorosamente sulle biografie individuali e collettive delle società anche indirettamente coinvolte, come quella italiana. In Europa e negli Stati uniti il dibattito attorno alla tutela dei diritti umani assume contorni diversi ma persiste un tratto comune: l’utilizzo del proprio corpo, inteso come organismo individuale e collettivo.

L’intensificarsi delle aggressioni da parte dello Stato israeliano nei confronti del popolo palestinese sta turbando l’opinione pubblica globale e in molti istituti scolastici, di ogni ordine e grado, si sono verificate significative proteste come non avvenivano da decenni: a partire dagli atenei e dai licei e fino ad alcune scuole elementari.

Fin qui si osserva un corpo collettivo che si assembra e si mobilita per chiedere la fine del massacro in corso e il raggiungimento di alcuni obiettivi essenziali.

Tutto ciò rifletterebbe il lato migliore delle democrazie contemporanee, quello che garantisce la libertà di espressione e di parola, di pensiero e di riunione. E che coinvolge direttamente la dimensione pubblica dell’organizzazione sociale.

Ma c’è un’altra dimensione, che si potrebbe chiamare oscura se non fosse ormai così vivida e cristallina, e che risiede nei tentativi di mortificazione di questi stessi principi fondativi del sistema democratico.

Tentativi che rimandano a un rifiuto sprezzante, per esempio, delle ragioni della protesta studentesca, ridotta a prodotto di «professionisti della materia che provocano le forze dell’ordine nella speranza che qualcosa vada storto» (Giorgia Meloni).

Ma altrettanto disprezzo si manifesta in vicende dove sono la libertà individuale e i diritti fondamentali della persona a risultare sotto attacco.

È il caso di Seif Bensouibat. Riassumiamo la sua vicenda. Bensouibat è un cittadino algerino, rifugiato politico in Italia dal 2013, che per circa dieci anni ha lavorato come educatore nell’istituto superiore francese Chateaubriand di Roma. Dopo aver visto le immagini, provenienti dalla Striscia di Gaza, relative all’uccisione di migliaia di bambini e di vittime civili, l’uomo condivide alcuni post privati in cui si esprime con risentimento nei confronti dei paesi occidentali, alleati di Israele, e a favore di Hamas. Tutto ciò in una chat non pubblica, visibile solo a chi ha accesso al profilo di Bensouibat.

La segnalazione di questa condivisione ha causato prima la sospensione dal lavoro e poi il definitivo licenziamento da parte dell’autorità scolastiche. Poi, una perquisizione domiciliare a opera della Digos di Roma allo scopo di ricercare armi ed esplosivi. Perquisizione che non ha avuto alcun esito. Pochi giorni dopo Bensouibat viene informato dell’avvio a suo carico di una indagine penale e del procedimento di revoca dello status di rifugiato.

Trascorrono alcuni mesi e la storia di Bensouibat assume tratti ancora più preoccupanti.

Pochi giorni fa, la polizia di Stato gli comunica la conferma della revoca dello status di rifugiato: viene prelevato e portato prima all’ufficio immigrazione e, poi, nel Cpr di Ponte Galeria, alla periferia di Roma. La motivazione del provvedimento consisterebbe nella presunta pericolosità di Seif e nel suo possibile coinvolgimento nel «fenomeno del terrorismo religioso di matrice jihadista, dei lupi solitari e della radicalizzazione islamica». Il 20 maggio scorso la misura del trattenimento nel Cpr non è stata confermata dal giudice della convalida e, ora, i legali di Seif Bensouibat hanno un mese di tempo per ricorrere contro il decreto di espulsione.

Restano irrisolte le grandi questioni di principio che questa vicenda evoca. Ovvero: le parole di Seif Bensouibat integrano la fattispecie del reato di opinione? E, nel caso, una simile violazione può incrinare il fondamentale diritto, costituzionalmente protetto, e così limpidamente espresso all’articolo 10: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica»?

Ancora: Seif Bensouibat è indagato per «propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa».

L’uomo ha già chiarito, pubblicamente, il motivo di quelle frasi e ne ha preso nitidamente le distanze. Dunque, c’è da domandarsi se lo straniero, perché possa conservare lo status di rifugiato debba, oltre che rispettare le leggi italiane, adeguarsi a una sorta di conformismo ideologico.

Un conto è non condividere le opinioni di Seif Bensouibat e un conto assai diverso, e insidioso, è pretendere di controllarne e censurarne gli stati emotivi, i sentimenti, la sofferenza.