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Dipendenze e carcere, disintossicare non è l’unica soluzione

Dipendenze e carcere, disintossicare non è l’unica soluzione

L’uso di sostanze è considerato una "malattia". Portavoce dell’alleggerimento della popolazione carceraria "malata" è il sottosegretario alla giustizia Delmastro

Pubblicato più di un anno faEdizione del 15 marzo 2023

L’ultima frontiera del governo più a destra della storia repubblicana sono i «tossicodipendenti» in carcere. Portavoce dell’alleggerimento della popolazione carceraria “malata” è il sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove.

Il Testo Unico sulle droghe 309/90 prevede regimi speciali (articoli dal 90 al 96) di esecuzione della pena per i soggetti “tossicodipendenti”: uno di decarcerizzazione, con sospensione della pena e affidamento in casi particolari, l’altro di regime detentivo speciale. Se i percorsi sono abbastanza chiari, ancorché in disuso, resta problematico stabilire chi qualifichi i “tossicodipendenti”. Ai fini dell’applicazione delle norme non occorre la «cronica intossicazione» perché chi ne soffre, essendo non imputabile, non viene assoggettato a pena e, se ritenuto pericoloso, viene sottoposto a misure di sicurezza.

In aggiunta alla mancanza di una definizione di «tossicodipenza», la Legge parla anche di alcoldipendenza. Il che, essendo i dati del ministero quantitativi e non qualitativi, crea ulteriori problemi (anche) di tipo statistico. Il primo comma dall’art. 95 della 309/90 definisce a chi è rivolto il regime speciale senza approfondire di chi si parli: «La pena detentiva nei confronti di persona condannata per reati commessi in relazione al proprio stato di tossicodipendente deve essere scontata in istituti idonei per lo svolgimento di programmi terapeutici e socio-riabilitativi».

Al 28 febbraio scorso, la popolazione detenuta in Italia contava 56.319 persone a fronte di una capienza regolamentare (assai dubbia) di 51.285 letti. Secondo i dati ufficiali, analizzati nei Libri Bianchi sulla legge sulla droga prodotti dalla società civile, circa il 30% di chi è ristretto è in carcere per violazioni della 309/90 o reati “droga-correlati”. Le statistiche del Ministero dicono che poco più del 20% dei detenuti sono “tossicodipendenti”. Nella stragrande maggioranza dei casi le carceri ereditano la segnalazione dalle Asl o dai SerD.

Recentemente il Dipartimento per le Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio ha pubblicato un documento intitolato «Carcere e Droga» in cui si ricorda che la presenza di persone tossicodipendenti e/o alcoldipendenti in carcere per aver commesso reati di varia natura «comporta da sempre notevoli problemi per la loro gestione in ambienti problematici di per sé e per la complessità che la cura di tale stato di malattia comporta». Se però si esclude la «cronica intossicazione» chi sono, e di cosa sono malati, questi “malati”?

In buona o cattiva fede, si fa un uso improprio, o datato, di termini su cui la letteratura scientifica, prima ancora che la criminologia, continua a interrogarsi. Il Dipartimento offre spunti per approfondire la conoscenza necessaria ad affrontare l’argomento perché «le persone tossicodipendenti o alcoldipendenti che sono in carcere», non sempre con sentenza definitiva, «sono recluse per vari motivi ma non in quanto tossicodipendenti». Indipendentemente da chi è al Governo l’uso di sostanze di per sé viene considerato un abuso, un pericolo per la salute personale e pubblica. Una “malattia”.

La Legge 309/90 prevede la possibilità di accedere a cure in relazione alla presenza reale di uno stato di tossicodipendenza o alcoldipendenza. Per il sottosegretario Delmastro il luogo più appropriato per ricevere queste terapie sono le comunità chiuse «come quella di San Patrignano». Ora, se è vero che la SanPa del 2023 non è quella di 40 anni fa, resta il problema, o il dubbio, che chi abbia un rapporto problematico con le sostanze lecite e illecite possa trarre particolare giovamento nel ricorrere a terapie più o meno scientificamente validate in uno stato di privazione della libertà. Chi stabilisce che la “disintossicazione” sia la cura più adatta per chi ha un rapporto problematico con le sostanze? L’esperienza svizzera segnala che è possibile convivere con questa “dipendenza” puntando sulla qualità della sostanza e la sicurezza e salubrità dei luoghi di uso.

La legge contiene già quanto necessario per far uscire dal circuito detentivo, perché non applicarla? Vista questa lodevole attenzione del Governo, perché non prevedere serie politiche di riduzione del danno? Ma soprattutto perché dedicarsi agli effetti di una legge senza aprire un dibattito sulla penalizzazione di condotte che non creano vittime? Se il problema è il sovraffollamento la soluzione è sicuramente altrove.

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