Dietro la sconfitta di Kamala Harris c’è la guerra, non il machismo
Analisi di un disastro elettorale La tradizione guerrafondaia di certi presidenti democratici non si è smentita. La candidata anti Trump ha incassato persino l'appoggio di Dick e Liz Cheney, mentre taceva sul genocidio a Gaza compiuto anche con le armi americane
Analisi di un disastro elettorale La tradizione guerrafondaia di certi presidenti democratici non si è smentita. La candidata anti Trump ha incassato persino l'appoggio di Dick e Liz Cheney, mentre taceva sul genocidio a Gaza compiuto anche con le armi americane
Nelle riflessioni sulla sconfitta di Kamala Harris si è parlato molto di machismo. Tuttavia, il problema non è che Kamala fosse una donna, come nel 2016 la sconfitta di Hillary non fu causata dal fatto che l’America non è pronta per un presidente di sesso femminile. No, il problema è che gli americani amano la bandiera ma non le guerre, mettono le spillette patriottiche al bavero della giacca ma diffidano dei guerrafondai, piangono agli alzabandiera ma detestano chi manda i loro ragazzi a morire Oltreoceano.
E, guarda caso, i presidenti che hanno iniziato le guerre sono sempre stati democratici: se escludiamo Franklin Roosevelt, trascinato nella Seconda guerra mondiale dall’attacco giapponese a Pearl Harbour, i presidenti con il grilletto facile sono stati Woodrow Wilson (Prima guerra mondiale), Harry Truman (guerra di Corea), John Kennedy e Lyndon Johnson (Vietnam). Tutti democratici.
L’eccezione a questa legge storica è stato George W. Bush, invasore dell’Iraq e dell’Afghanistan con al suo fianco il criminale di guerra Dick Cheney. Quel Dick Cheney, che insieme alla figlia Liz Cheney, ha sostenuto con entusiasmo Kamala Harris per tutta la campagna elettorale mentre la candidata democratica taceva sul genocidio a Gaza, ignorando la comunità arabo-americana del Michigan, decisiva nella vittoria di Trump in quello stato.
Come vicepresidente di Bush Jr., Cheney era stato uno dei principali artefici non solo della guerra in Iraq, che ha causato centinaia di migliaia di morti iracheni, ma anche delle pratiche di tortura, delle prigioni segrete della Cia e dell’apertura della prigione di Guantanamo, che è ancora lì 22 anni dopo. Le conseguenze di lungo periodo degli otto anni di occupazione americana in Iraq si fanno sentire ancora oggi sia in Medio Oriente che nella politica interna degli Stati Uniti: l’appoggio dei Cheney a Kamala è stato una svolta rispetto a 20 anni di campagne presidenziali democratiche costruite sul ripudio dell’amministrazione Bush e della sua disastrosa guerra in Iraq.
Nel 2004, il candidato democratico John Kerry, affermava che l’invasione aveva creato «una crisi di proporzioni storiche» e accusato Bush di «ostinata incompetenza» per la sua gestione della guerra. Nel 2008, l’opposizione di Barack Obama a quella guerra impopolare era stata una delle fonti del suo successo nelle urne.
Anche nel 2016, le ripercussioni della guerra in Iraq erano state un tema importante nelle primarie democratiche: Bernie Sanders aveva fatto della sua opposizione alla guerra la chiave del suo programma e aveva ripetutamente fatto riferimento al voto di Hillary Clinton a favore della guerra: «Non credo che tu sia qualificata [per essere il candidato democratico] se hai votato a favore della disastrosa guerra in Iraq», aveva detto nel corso di un dibattito nell’aprile 2016.
Joe Biden non ha mandato i giovani americani né in Ucraina né in Israele ma gli elettori la televisione la guardano e hanno visto le immagini delle trincee nel Donbass e delle devastazioni in Palestina e in Libano. Sono andati a votare sapendo che i miliardi che potrebbero costruire case, scuole e ponti negli Stati Uniti si sono invece trasformati in droni, missili e bombe sugli ospedali palestinesi (un tema che aveva trattato addirittura il presidente repubblicano Eisenhower nel suo discorso di commiato il 17 gennaio 1961).
Viene quindi da chiedersi perché Kamala Harris abbia tenacemente taciuto sulla politica estera e abbia cercato e ottenuto il sostegno dell’intero establishment della politica estera di Washington, non dei soli Cheney. Un sondaggio di esattamente un mese fa del Carnegie Endownment for International Peace aveva rilevato che, tra gli elettori indecisi, oltre la metà non aveva fiducia «nella capacità di uno dei due candidati di gestire efficacemente le questioni di politica estera, mentre una minoranza significativa preferiva Trump per quanto riguarda le relazioni con la Cina, la guerra tra Israele e Hamas, l’immigrazione al confine tra Usa e Messico e la guerra tra Russia e Ucraina».
Gli indecisi sono quelli che, all’ultimo minuto hanno deciso di votare per Trump.
Non è stata una scelta contingente, il frutto della propaganda dei repubblicani: nel 2021 due terzi degli interrogati dal Pew Research Center aveva risposto che «mantenere la superiorità militare americana» non era una priorità e i sostenitori di azioni unilaterali degli Stati Uniti per «promuovere la democrazia all’estero» erano esattamente il 13%.
Un altro sondaggio, del Chicago Council, indicava che solo il 47% degli indecisi era favorevole a un «ruolo attivo» degli Stati Uniti nel mondo. Se, più precisamente, si chiedeva all’insieme dei cittadini: «Gli Stati Uniti hanno la responsabilità di avere un ruolo di leadership nel mondo?» appena il 17% rispondeva di sì.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento