Un singolare gusto per l’inquadratura – l’angolazione, il permeare della luce nell’aria, sulle superfici, gli scorci disertati – all’inizio di Margini di Nicolò Falsetti, film italiano in concorso alla Settimana della Critica prodotto da Fandango: la macchina fissa che, prima di inquadrare i margini appunto – repertorio di rotonde in preda a gramigne, terrapieni, sfrecciare di treni – mostra impassibile le prove di uno scalcinato gruppo punk in una rimessa ancora più scalcinata alla periferia di Grosseto. È tanto rigorosa (e protratta) l’inquadratura (meraviglia della macchina fissa) quanto sbilenco, balzano, vitale, di una vitalità del tutto provvisoria, precaria, quello che vi si scorge, vi si svolge in un’intima dialettica tra fissità e frenesia: il fracasso del rullante, furente sferragliare dei piatti; le scale funamboliche di basso; voce e chitarra rauca, urlante, a gridare storie di libertà, di gioventù, di dedizione alle muse.

un senso sbilenco della giovinezza e della vita che resiste fino alla fine e senza troppa retorica, come avveniva in quel film bellissimo che esordì proprio alla SIC di qualche anno fa, Los Nadie di Juan Sebastian Mesa.

INSOMMA il film è già tutto in questo inizio sorprendente, come l’inizio di un concerto scandito dalle bacchette di batteria; è già tutto in questi testi cantati dai tre «scappati di casi» in estasi da hardcore, e nel dialogo ritmico che si viene a instaurare tra immagini e musica. Certo si tratta di margini a tratti slabbrati: forzature nella sceneggiatura (ad esempio non si capisce perché a un tratto esplode la vandalizzazione di una discoteca da parte dei protagonisti), in alcuni profili bozzettistici dei personaggi, qualche cliché proprio della commedia virziana. Ma c’è una vitalità nel film, un senso sbilenco della giovinezza e della vita che resiste fino alla fine e senza troppa retorica, come avveniva in quel film bellissimo che esordì proprio alla SIC di qualche anno fa, Los Nadie di Juan Sebastian Mesa.

MA SI POSSONO fare altri esempi in cui questa sezione della Mostra ha dimostrato negli anni una certa attenzione a questi temi e queste forme (il naturale, si potrebbe dire anche endemico, connubio tra giovinezza e musica): senza arrivare agli inarrivabili, archetipici Gummo e Fandango mi vengono in mente almeno, per restare agli ultimi vent’anni, Falkenberg Farewell dello svedese Jesper Ganslandt e in un senso mitico e fiabesco Les Garcons Sauvages di Mandico. Ora Beatrice Fiorentino e il resto della commissione di selezione della SIC continuano su questa strada, così la Sala Perla resta un eremo in cui assistere all’entusiasmante, malinconica apoteosi della gioventù, quel «racconto crudele della giovinezza», per dirla con Oshima, che è anche di Margini.

TITOLO ROSSIGNO, a caratteri cubitali, come in Noé o Manuli, piuttosto che Alonso, con alla fine carrellata di brani di gruppi punk italiani: Margini è allo stesso tempo esecrazione furente e celebrazione rassegnata della provincia, della periferia – solcata da figure grette, grottesche –, ed è adesione orgogliosa alle vicende degli sconfitti che riescono nell’impresa per poi tornare alle loro vite crepuscolari.