Dieci minuti dal carcere
La fila, la scheda, l’attesa, le emozioni e la paura degli squilli a vuoto, il fischio che annuncia la fine. Storia delle telefonate dei detenuti. Sempre troppo poche, quattro o sei al mese che siano
La fila, la scheda, l’attesa, le emozioni e la paura degli squilli a vuoto, il fischio che annuncia la fine. Storia delle telefonate dei detenuti. Sempre troppo poche, quattro o sei al mese che siano
Per ogni piano della sezione a metà corridoio c’è una piccola stanza angusta e sporca: è la stanza delle telefonate. Dentro c’è uno sgabello, un tavolo bianco di plastica e un telefono fisso, un vecchio apparecchio dove i numeri sono spariti dai tasti, consumati dalle dita dei detenuti.
La telefonata è un momento speciale al quale nessun detenuto vuole rinunciare, chi rinuncia è perché non ha nessuno da chiamare e vive in solitudine sia dentro che fuori. Di fronte alla stanza del telefono, dall’altro lato del corridoio, c’è una finestra a quattro ante, dove gli uomini si appoggiano mentre fanno la fila. Nell’attesa del fatidico momento si fuma e si chiacchiera. Generalmente, nel mondo fuori, la fila si fa a ridosso del posto dove si deve entrare, in carcere invece la fila per telefonare inizia più o meno ad otto passi dalla porta, dall’altro lato del corridoio. Stare alla finestra prima di telefonare aiuta a rilassarsi, distrarsi e smorzare la tensione che precede ogni telefonata. Qualcuno guarda aldilà delle sbarre, dove non può essere guardato, mentre riannoda e prepara parole e pensieri. Quattro uomini, di ogni età, amici e nemici, tutti in attesa. Gli occhi di tutti volano alla stessa altezza e le chiacchiere durante l’attesa sono leggere, dalla stanza il ragazzo che sta telefonando grida alla figlia: «passami la mamma sbrigati che sta finendo la telefonata!».
È BELLO PREGUSTARE il piacere di un contatto con una voce che ti parla da casa, magari dalla cucina o da una strada affollata: ascoltare un ambiente diverso dove i rumori non sono sempre tristemente uguali. Uno su quattro, a rotazione, è sempre sfortunato: dall’altra parte non risponde nessuno, meglio riprovare più tardi. Quando il prossimo sei tu, saluti il mondo fuori, il «buona telefonata» dei compagni risuona alle spalle mentre già entri: accosti il blindo, qualcuno ha fumato dentro, la cornetta è bagnata di sudore, passi la tessera magnetica sull’apparecchio, il codice pin e finalmente chiami uno dei pochi numeri autorizzati.
Alla prima parola che viene dall’altra parte non ci si fa mai l’abitudine, è sempre una bellezza. Poi subito vuoi dire tutto senza perdere tempo ma il tempo scorre: parole, parlare, sapere, ascoltare, raccontare, ecco che senza dire nulla sono già passati due minuti e la conversazione ancora non sa dove andare. Ne passano tre, quattro, cinque, e ancora senti che vuoi di più, arrivare da qualche parte ma hai paura di non essere sulla stessa lunghezza emotiva, altre domande e altre risposte, veloce, poi d’improvviso senti che qualcosa ha funzionato e anche se si parla del più del meno il dialogo come una nave è uscito dal porto, naviga in mare, nel vento.
CAPITA anche che le telefonate si trasformino in litigate ed è un guaio perché quasi mai si riesce a chiarire in tempo. L’orologio non sbaglia, sei a nove minuti, ormai manca meno di un minuto, ancora trenta secondi poi si inizia con i saluti e le raccomandazioni. Un campanello avverte da entrambi i lati della cornetta che mancano trenta secondi, lo sai e lo aspetti, quello dei trenta secondi alla fine è un momento che deve arrivare. Meglio cosi, un altro momento rituale, quando non senti la scampanellata è peggio. I saluti, poi la domanda finale: chi chiami per la prossima telefonata? La risposta purtroppo non è mai richiamo te, cosi mi finisci di raccontare, perché le telefonate sono poche, pochissime, e anche gli altri hanno bisogno di una boccata d’ossigeno, di sentire almeno la tua voce. Metti giù cinque secondi prima, prima che lo facciano loro per te. Qualche secondo in più dentro, per tirare il fiato ed uscire con calma da altro universo temporale.
Chi viene dopo ti viene incontro sorridente come per prendere la staffetta e non perdere minuti preziosi, anche se sa, che quando uscirà da quella sala fumosa avrà ovunque una malinconia amara. Ma non importa, ci sono sempre dieci minuti per uscire dal porto, odorare la normalità ed essere abbandonati in alto mare. Chiudere una telefonata è molto peggio di quel che sembra, è diversamente ma altrettanto difficile che terminare un colloquio visivo.
AL COLLOQUIO quantomeno ci si può toccare, guardarsi e abbracciarsi, stringersi. Con una telefonata lanci tutto quello che hai sperando che l’emozione nella voce possa arrivare dove tu vorresti arrivare. Quando esci torni a fare le ultime due battute magari a raccontare le cose belle o brutte che sono successe fuori. Provi a far continuare i dieci minuti, ma sono stati solo dieci minuti e tutti, sempre, nei giorni nei mesi e negli anni, lo sanno ma non lo vogliono raccontare. Sembra inutile continuare a ripensare alla telefonata, eppure è un passaggio da fare: un dolore ingestibile che pian piano inizi a gestire. È il «carcere sicuro» al quale è meglio non pensare.
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