Dieci anni senza di lui. Era l’11 gennaio del 2013 quando la sua compagna scoprì che Aaron Swartz, ad appena ventisei anni, si era tolto la vita nella casa di Brooklyn. Quel piccolo appartamento che dividevano da molti mesi.

L’aveva fatta finita. E quel gesto, ovviamente, segnerà la fine delle persecuzioni giudiziarie nei suoi confronti, quelle delle corti federali americane, dell’Fbi, continuate “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Continuate anche col silenzio complice delle istituzioni che pure, allora, vestivano i panni della trasgressione. Dell’irregolarità.

Si toglie la vita, mettendo la parola fine alle indagini fatte “per vendetta, anzi condotte dal dipartimento della vendetta”, per usare le parole di Taren Stinebrickner-Kauffmann, la sua fidanzata.

Dieci anni, dunque. Dove tanti hanno scoperto la sua biografia, unica davvero. Di un ragazzo, solitario, senza molti amici, che ha la fortuna di nascere in una famiglia che dispone di tanti computer, visto che il padre per lavoro scriveva software. E così, raccontano, già poco più che adolescente riesce addirittura a scrivere codice per i giochi.

Rifiuta la scuola, quel tipo di insegnamento, dottrinale ed acritico. E poi via-via tutto il testo, dal contributo – decisivo – dato alla nascita dei Creative Commons, la licenza che permette di usare le creazioni dell’ingegno senza la ghigliottina del “tutti i diritti riservati”, fino al varo di Reddit, l’aggregatore di notizie che anticipò l’era dei social e che è ancora attivissimo (tanto che negli States il 40 per cento degli utenti on line “abita” lì, su quelle pagine web). E poi ancora l’Open Library e le decine, centinaia di progetti, innovativi, dal lavoro su un nuovo linguaggio di programmazione alla creazione di altri siti, come watchdog.net.

Tanti hanno conosciuto la sua biografia, la sua storia. Ma tanti, troppi si sono limitati a raccontarlo come un “ragazzo prodigio, un genio informatico” – sono le definizioni utilizzate da Repubblica, il giorno dopo la morte -, curioso di tutto e attento ai diritti. Un dolce, simpatico hacker, insomma. Quando quella figura – quella dell’hacker – veniva ancora confusa con chi, nella Silicon Valley, era già uscito dai garage, lavorava in splendide suite, e faceva milioni di dollari. Anche se continuava ad usare il linguaggio e lo stile degli hacktivist, a mo’ di spot pubblicitario.

La sua storia, la storia di Aaron Swartz è invece la storia di una crescita continua, “di una presa di coscienza progressiva”, per usare le tristi espressioni della sinistra europea. La storia di chi un po’ alla volta ha deciso di non voler essere simpatico ai monopoli digitali, che già allora si stavano affermando. La storia di chi vedeva nei “signori del copyright” un avversario. Da sconfiggere, per affermare il diritto ad un sapere condiviso.

La storia, la sua biografia dunque, dove marciano in parallelo le sue intuizioni, le sue applicazioni tecnologiche ed il suo impegno nel sociale. In politica.

Una storia, questa, fatta passare in secondo piano nei tanti libri a lui dedicati usciti in questi anni (con qualche eccezione certo: per ultimi vanno ricordati “Aggiustare il mondo”, di Giovanni Zaccardi, scaricabile gratuitamente dal sito dell’università di Milano o l’ottimo lavoro fatto dall’aaronswartztributo). Impegno che è arrivato a lambire la politica tradizionale, quando in qualche modo diede una mano alla campagna elettorale di Obama nel 2009.

Ma che soprattutto è stata militanza, idee, progetti.

Comincia con gli appunti da ragazzo, dove spiega che i “saperi” imparati al liceo non sono funzionali al libero sviluppo dell’intelligenza. In un mondo che si sta avviando alla connessione globale.

Poi riflette sulle difficoltà che molti, troppi utenti potrebbero trovare nell’utilizzare la Rete. Vara i primi progetti, dove al centro c’è la persona, i suoi bisogni. Ben presto comprende che la mole di informazioni che circola on line è un vantaggio ma può creare problemi. Progetta quindi un aggregatore di dati, di notizie. Sempre con l’obbiettivo però che il “fruitore”, le persone insomma, possano commentarle, discuterle. Analizzarle. Così nasce Reddit.

Che ha subito un successo enorme, al punto che l’acquista l’editore di Wired, appunto uno di quelli attenti ai dollari ma dall’”aspetto” ancora legato ai garage di Cupertino. E lo compra per una bella cifra. In più, porta Aaron Swartz nei suoi uffici.

Lui che frequentava i gruppi di studio e di lavoro di Tim Berners-Lee, il vero inventore del Web, o quelli di Lawrence Lessig all’università di Harward, fondatore della Creative Commons, resisterà poco in quelle stanze asettiche di San Francisco. Pochi mesi.

Perché vede, “tocca” con mano, come le innovazioni tecnologiche “non stanno cambiando il mondo”. Lo possono anzi peggiorare, trasferendo poteri da monopoli ad altri monopoli. Che ora possono comprarsi tutto. Dalle leggi a loro favore (e Aaron entra a testa bassa nelle campagne contro la corruzione, creando siti ad hoc, che avrebbero permesso alle denunce di restare anonime) alla vita, ai desideri delle persone.

E coglie il nesso fra la battaglia per i diritti digitali, per il diritto a conoscere, per il diritto ai saperi e quella contro le logiche capitaliste. Ed ecco nell’estate del 2008, il “Guerrilla Open Access Manifesto”.

Scritto assieme ad altri ma scritto e ispirato soprattutto da Aaron Swartz. Pubblicato inizialmente sul blog Aubreymcfato – è ancora lì – ha fatto subito il giro del mondo.

E’ un linguaggio semplice, diretto ma mai naif. Radicale e mai banale. Lontano insomma dal Manifesto di John Perry Barlow sull’Indipendenza del cyberspazio di dodici anni prima, dove con molto infantilismo e poca preveggenza si parla di “pensiero puro” che scaturirebbe dalla Rete contrapposto a governi e imprese che “non sono state invitate nello spazio libero virtuale”.

No, il “Guerrilla Open Access Manifesto” è un documento politico. Che denuncia come le persone, gli ultimi, chi ne avrebbe bisogno è escluso “dal banchetto delle conoscenze”. E’ escluso dai copyright, dai brevetti, dalle norme. E violare quelle norme è un obiettivo politico. Politico “e morale” aggiunge il Manifesto. Perché “non c’è giustizia nel rispettare leggi ingiuste” scritte e imposte dalle multinazionali.

Leggi ingiuste. Sempre nell’estate del 2008, l’agenzia statunitense Pacer, che gestisce l’archivio di tutti i procedimenti penali negli Usa – per lanciare il suo traballante programma di digitalizzazione – aveva promosso una campagna nelle biblioteche. Chiunque poteva recarsi in alcune strutture e richiedere qualche documento on line.

In quei giorni, in quei pochi giorni, i documenti si sarebbero potuti scaricare gratuitamente. Poi, si sarebbe tornati a pagarli un centesimo a pagina. Tenendo presente che una sentenza, in genere, è composta da un centinaio di pagine. Comunque sia, un anonimo utente, dalla Sacramento County Public Law Library, il 4 settembre scarica milioni di file. Lo stesso, tre giorni dopo.

L’agenzia Pacer denuncia la cosa all’Fbi, partono le indagini che arrivano ad Aaron Swartz. Si saprà allora che il ragazzo aveva trasferito tutto il materiale raccolto sul sito public.resource.org, allestito assieme a Carl Malamud, un altro noto attivista. Con l’obbiettivo – tutto politico – di garantire la gratuità dei servizi che per legge dovrebbero essere a disposizione di chiunque.

Non ci sarà processo ma ormai Aaron Swartz era entrato nel mirino degli investigatori.

E si arriva a gennaio del 2011. Quando un’importante società privata, la Jstor denuncia un “ingresso illecito” nei suoi database. La Jstor raggruppa e organizza centinaia di riviste scientifiche e, a pagamento, le mette a disposizione delle università. Dei ricercatori, degli studenti, dei professori. Ovviamente solo negli atenei che possono permettersi l’ingente spesa. E non è difficile immaginare che l’operazione servisse proprio a rendere pubbliche quelle riviste.

In questo caso, le indagini durano a lungo. Si capisce subito che l’accesso al database del Jstor – dal quale sono stati prelevati milioni di file – proviene da una stanza del MIT, il mitico Massachusetts Institute of Technology, ma non si riesce a risalire al responsabile. Addirittura si impiegheranno agenti in borghese per spiare le sale di lettura, quelle col wi-fi. Le aule. Sì, perché il MIT – nonostante la sua aureola di istituzione iper libertaria – darà una grossa mano alla polizia, agli investigatori.

Alla fine le indagini porteranno Aaron Swartz al carcere e all’avvio di un processo.

Neanche questo comincerà mai, però. Sempre rimandato. Né, i giudici né gli avvocati del ragazzo arriveranno mai a un accordo. L’autorità americana gli prospetta decine di anni di carcere, riducibili a “patto” che si dichiari colpevole e accetti di non lavorare più ai suoi progetti digitali. Proposte tutte respinte. E nulla cambia, neanche quando il MIT – costretto dalla mobilitazione dei suoi studenti e professori – pubblicamente spiega di considerare chiuso il caso.

La persecuzione giudiziaria invece continua lo stesso. Fino a quella tragica mattina di dieci anni fa. Che cambiò la vita di molti. Ma non di tutti. Perché furono tanti – anche fra i suoi amici e compagni di avventura – che certo denunciarono l’assurdità delle inchieste federali ma raccontarono forse un Aaron Swartz più “addomesticato”. Sì, visto che uno dei pilastri dell’accusa era proprio quel “Guerrilla Open Access Manifesto”, tanti dissero che quella era solo una sua opera “giovanile” – lui che se n’è andato a 26 anni, scritta pochi anni prima – e che lui non era più così radicale.

Non ha cambiato la vita di tanti. Perché molti – a cominciare dalle più famose associazioni per i diritti digitali, tranne pochissime eccezioni – sono ancora lontane dal cogliere quel filo che lega le battaglie per il sapere condiviso, le battaglie contro un antistorico copyright, contro la sorveglianza, il controllo, la battaglia per la privacy, la battaglia per la libertà d’espressione a quella contro il capitalismo digitale. Contro le Big Tech. Contro le nuove forme di sfruttamento del capitalismo.

Aaron l’aveva capito e “praticato”. Non si limitava a fare appelli alla benevolenza di chi controlla la Rete.