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Diderot musicista fallito, ma genio della satira

Diderot musicista fallito, ma genio della satiraNicolas Vaude e Olivier Baumont in «Il nipote di Rameau» tratto da Denis Diderot, regia di Jean-Pierre Rumeau, Parigi, Théâtre le Ranelagh, 2023

Grandi dialoghi/10 L’eroe dell’operetta di Diderot, «Il nipote di Rameau», è un parassita al quale lo scrittore affida il compito di denunciare le malefatte dei nemici

Pubblicato circa un anno faEdizione del 6 agosto 2023

Secondo Diderot, se ci fosse stata una sola preziosa ridicola, o un solo avaro, o un solo tartufo, Molière non avrebbe scritto i suoi capolavori; in altri termini, il genere comico è delle specie, la satira è degli individui. Il breve testo oggi noto come Il Nipote di Rameau (steso a partire dal 1761, ma pubblicato postumo), nel manoscritto era stato titolato da Diderot Satira seconda: ora la satira, sostiene l’enciclopedista, è l’«infanzia del comico», suggestiva formula che non va riferita a una qualche innocenza infantile (proprio in questo volumetto si dice che «se il piccolo selvaggio fosse abbandonato a se stesso … strozzerebbe il padre e andrebbe a letto con la madre», celebre passo, amato da Freud e ispirato dal puer robustus di Hobbes); la formula significa piuttosto un riso che non conosce ancora il concetto.

L’eroe dell’operetta di Diderot è un parassita, tipo ben noto e codificato da una lunga tradizione letteraria, presente già nella commedia antica, oltre che protagonista di un celebre dialogo di Luciano. Ma bersaglio della satira sono anche e soprattutto i suoi protettori-vittime: i finanzieri e i nobili reazionari, nemici degli illuministi e mecenati dei letterati a loro ostili.

I «filosofi» utilizzano volentieri l’arma della satira, ma quando ne sono vittime ostentano diffidenza nei confronti della comicità, accusata di mettere spesso alla berlina persone perbene, solo perché noiose. Donde lo stratagemma dello scrittore che, guardandosi bene dall’assumere il ruolo di chi raccoglie e spaccia tutte le maldicenze in circolazione sugli avversari, affida il compito di denunciarne le malefatte a uno di loro, un parassita che mangia alla stessa greppia, ma che confessa con franca impudenza il suo e l’altrui degrado morale, con un linguaggio pittoresco e scintillante.

Jean-François Rameau, noto alle cronache coeve come «il nipote di Rameau», vale a dire come l’imbarazzante appendice di uno zio geniale (il grande musicista Jean-Philippe Rameau, oggi considerato, insieme ai coetanei Händel e Bach, uno dei vertici della musica barocca), è un intellettuale bohémien, un musicista fallito che campa corteggiando senza vergogna e senza troppa fortuna i potenti; ma che, a differenza dei suoi pari e dei suoi protettori, si fa notare per lo spirito singolarmente acuto che anima le sue facezie, capaci di squarciare il velo dell’ipocrisia cortigiana.

Al testo di Diderot, Hegel ha dedicato alcune dense pagine della Fenomenologia; del resto, la natura dialettica del personaggio si può comprendere anche intuitivamente, a partire appunto dal suo ruolo doppio: il parassita è oggetto dell’ironia del narratore che ne parla al lettore complice, ma anche soggetto dei racconti che mettono alla berlina gli antifilosofi. In conseguenza di questa doppia funzione, che conferisce al Nipote lo statuto definito da Starobinski «metacomico», il personaggio è deriso e deride, costituendo il perno su cui si articola l’organizzazione formale relativamente semplice dello scritto. Il motto di spirito, ha evidenziato Tzvetan Todorov rileggendo l’analisi freudiana del Witz alla luce dei lavori di Benveniste sull’apparato dell’enunciazione, implica sempre tre attori (corrispondenti alle tre persone verbali), l’emittente, il destinatario e la persona oggetto del motto (la vittima, per così dire, della battuta).

Il testo si apre appunto con un narratore (non è Diderot, ma lo «rappresenta» nel testo) che racconta al lettore (di nuovo, sedicente «rappresentazione» del lettore supposto reale) di un suo fortuito incontro con il nipote di Rameau nel caffè parigino ritrovo degli appassionati di scacchi. In questo breve preambolo narrativo il lettore non prende mai la parola (come avviene in Jacques il fatalista), ma la sua presenza discreta, indicata dal «voi» e dai deittici connessi, segnala l’asse di una prima enunciazione. Poi il racconto si interrompe, perché Rameau, da terzo estraneo al colloquio tra il narratore e il lettore, prende la parola dando inizio al lungo dialogo tra IO (il filosofo, la coscienza onesta che fa spesso la figura dell’ingenuo) e LUI (il cinico pezzente, dissacratore di ogni istanza morale): la conversazione tra i due, tocca disordinatamente una vasta quantità di temi, di personaggi e di fatti, rievocati secondo lo stesso procedimento, perché ogni volta che LUI o IO raccontano qualcosa, lo fanno cedendo la parola al terzo di cui si parla, il quale talora, a sua volta, fa parlare qualcun altro.

Su questa struttura profonda, immanente, costruita come una successione di scatole cinesi, si sviluppa liberamente un testo che non è ordinato né chiuso: i diversi gusci interferiscono continuamente tra loro e il proliferare dei dialoghi potrebbe proseguire indefinitamente, se il suono della campana dell’Opéra non richiamasse Rameau, melomane incallito, allo spettacolo che sta per cominciare.

Goethe, che ha tradotto e commentato il Nipote di Rameau, lo ha paragonato a una ghirlanda di fiori che nasconde una catena d’acciaio: a dispetto delle continue digressioni sui più diversi argomenti, e nonostante i numerosi aneddoti evocati, il testo in effetti è mosso e controllato dalla logica del Witz, che senza un attimo di respiro alimenta continuamente il vettore di sviluppo unitario di una conversazione vivacissima, ma solo apparentemente caotica.

Musicista fallito, a dispetto degli studi forsennati (perché in arte, dice riecheggiando un tema ricorrente in Diderot, non basta la volontà, se manca la scintilla del genio), il parassita ha però mantenuto dell’artista il giudizio sicuro (negli scacchi, in poesia, in musica – sentenzia – si è sublimi o non si è nulla: non si dà mediocrità in questi domini) e le straordinarie doti mimiche, con le quali è capace di produrre esilaranti imitazioni. Inoltre, nonostante ostenti una sinistra ammirazione per le peggiori infamie, Rameau è anche un povero diavolo, oppresso dalla figura paterna dello zio ricco, celebre e geniale, e dai facoltosi zotici che lo mantengono – non padri, ma comunque padrini, che esigono da lui rispetto, deferenza e quell’adulazione di cui si nutre la loro falsa coscienza, ma che vogliono anche divertirsi.

Tuttavia, proprio a causa di una battuta di spirito, il protettore del momento, il finanziere Bertin, lo caccia in malo modo: il bohémien ha detto che, quando siede alla sua tavola circondato dagli altri parassiti, si sente «come un maestoso cazzo fra duoi coglioni», un Witz che non tanto offende i compari, quanto denuncia l’aspirazione a una rivalsa: l’identificazione con il fallo è una reazione alla ferita narcisistica, alla castrazione sistematica cui è costretto a sottomettersi quotidianamente per aver qualcosa da mangiare. O meglio, dice LUI, per poter «andare comodamente, liberamente, gradevolmente, copiosamente al gabinetto tutte le sere».
L’immaginario di Rameau è regressivo, sospinto sotto il segno dell’analità dalla fame, la dura legge del bisogno: non solo aspira a potere defecare abbondantemente, ma dichiara che se mai diventasse ricco, sarebbe il più scatenato scialacquatore.

Quel che è interessante non è tanto l’equiparazione tra l’oro e le feci coinvolti nella stessa prodigalità incontrollata, che ricorda la dépense di Bataille, quanto il fatto che secondo Rameau le spese improduttive, puramente voluttuarie dei ricchi, sono un fattore di giustizia sociale: arricchiti non si sa come, in maniera certo poco limpida, i detentori del potere e del denaro sono a loro volta rapinati da eserciti di donnine allegre, di gioiellieri, di sarti, di artigiani d’ogni specie, di scrittori mediocri, oltre che ovviamente di veri e propri parassiti, che di fatto li costringono a restituire parte del mal tolto.

Questo intervento paradossale nel dibattito sul lusso (inaugurato da Bernard de Mandeville all’inizio del secolo e proseguito almeno fino alla rivoluzione) è più serio di quel che si potrebbe pensare: Rameau non giustifica solo se stesso, propone senza saperlo una sorta di scollacciata parodia, una satira dunque, del Tableau économique con cui François Quesnay cercava in quegli anni di descrivere il sistema produttivo e distributivo dell’ancien régime. Né meno seria è la protesta di Rameau che si sente offeso nella sua dignità per essere stato cacciato ingiustamente: al filosofo che ironizza sulla dignità del parassita, questi risponde, con uno dei suoi ribaltamenti dialettici, che chi si serve di un buffone non ne è da meno: «Io sono il buffone di Bertin e di molti altri, il vostro in questo momento: o forse voi il mio. Chi fosse saggio non avrebbe affatto un buffone. Dunque chi ha un buffone non è saggio e, se non è saggio, è un buffone anche lui: forse il buffone del suo buffone, fosse anche il re».

 

Il dialogo
Da Denis Diderot, Il nipote di Rameau, Franco Maria Ricci, 1973 

LUI – Ecco a che punto siete, voialtri: credete che la stessa felicità sia adatta a tutti. Che strano modo di pensare! La vostra felicità presuppone uno spirito romanzesco che noi non abbiamo. Un’anima singolare, un gusto particolare. Voi nobilitate questa stranezza col nome di virtù, la chiamate filosofia . Ma la virtù e la filosofia sono forse fatte per tutti? Ne ha chi può. Ne conserva chi può. Immaginate un universo saggio e filosofo: e convenite che sarebbe diabolicamente triste. Ecco qui: viva la filosofia, viva la saggezza di Salomone: bere buon vino, ingozzarsi di cibi delicati, rotolarsi su della bella ragazze, riposarsi su letti morbidi. Tolto questo, il resto non è che vanità?
IO – Come! e difendere la patria?
LUI – Vanità. Non c’è più patria: da una polo all’altro non vedo che schiavi e tiranni.
IO – Aiutare gli amici?
LUI – Vanità. Chi è che ha degli amici? E quand’anche ne avessimo, perché farne degli ingrati? Guardate bene e vedrete che l’ingratitudine è quasi sempre ciò che si raccoglie dai servizi resi. La riconoscenza è un fardello, ed ogni fardello è fatto per essere scrollato di dosso.
IO – Esercitare una funzione sociale e adempierne i doveri?
LUI – Vanità. Che importanza ha avere o no una funzione una volta che si è ricchi, dato che non la si assume che per diventarlo? Adempiere i propri doveri a cosa porta? Alla gelosia, alla discordia, alla persecuzione. È così che si progredisce? Fare il cortigiano, perdio, fare il cortigiano! Frequentare i grandi, studiarne i gusti, prestarsi ai loro capricci, servirne i vizi, approvarne le ingiustizie: ecco il segreto.

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