Di «magia e bugia» è fatta la giusta ricetta della buona famiglia
Venezia 76 «La vérité» di Kore-eda Hirokazu apre il concorso, dramma agrodolce con le dive Binoche e Deneuve. Una star in crisi, una figlia che torna dagli Stati uniti per risollevare i nodi mai risolti del loro rapporto
Venezia 76 «La vérité» di Kore-eda Hirokazu apre il concorso, dramma agrodolce con le dive Binoche e Deneuve. Una star in crisi, una figlia che torna dagli Stati uniti per risollevare i nodi mai risolti del loro rapporto
Chi è davvero Fabienne star del cinema francese, circondata da uomini al suo servizio, mai gentile, egocentrata, che al giornalista intimorito – e adorante – risponde rimandando alle interviste rilasciate già a altri? Un’attrice che nella sua villa con alle spalle un carcere si scopre di fronte all’età una fragilità imprevista, ansie, la paura di essere alla fine della carriera, su quel «viale del tramonto» che per chi come lei è abituato a essere al centro dell’attenzione è l’incubo più atroce. Ha appena pubblicato le sue memorie, la personale narrazione di sé perché come ripete alla figlia tornata a Parigi per l’occasione dall’America insieme alla famiglia, una bimba e un attore di serie tv senza picchi di carriera, la verità non è appassionante, meglio la bugia dell’invenzione. È questa l’essenza di La vérité il nuovo film di Kore-eda Hirokazu, Palma d’oro lo scorso anno a Cannes per Un affare di famiglia, che ha aperto ieri in concorso la Mostra del cinema di Venezia numero 76, madrina della cerimonia di inaugurazione – senza il presidente Mattarella trattenuto al Quirinale dalla crisi di governo – Alessandra Mastronardi.
PER LA SCOMMESSA della prima regia fuori dal Giappone e con un cast internazionale, Kore-eda si è affidato a grandi interpreti a cominciare dalle due protagoniste. Catherine Deneuve e Juliette Binoche – «Eva contro Eva» in una relazione madre e figlia che si moltiplica come un gioco di specchi tutto femminile nel quale gli uomini restano ai bordi: la nipotina di Fabienne, Charlotte (Clémentine Grenier), la giovane attrice protagonista del film che Fabienne sta girando(Manon Clavel) e che tutti dicono somigli a una sua un’amica carissima ma anche rivale di set morta tanti anni prima, un’altra attrice, spaesata che nello stesso film interpreta Fabienne da giovane (Ludivine Saigner), e la storia parla proprio di una madre e di una figlia, di un abbandono forzato e di un’assenza. Trasmissione, complicità, delicati equilibri. I ricordi che la memoria plasma assecondando l’emozione del presente, rancori di carezze mai date, delusioni, tradimenti, sensi di colpa, reciproche accuse. La figlia di Fabienne, Lumir (Binoche) è sceneggiatrice, ha scritto per sé un’altra trama della propria infanzia che stride con quella materna delle loro vite: ma cosa è vero? E cosa nasce dai sentimenti, dall’immagine che ognuno vuole dare al mondo, dai silenzi per non ferire? Kore-eda lo ha definito un’opera su «una madre e una figlia che imparano a accettarsi per quello che sono e che, al di là delle differenze reciproche mantengono vivo un legame che si evolve tra magia e bugia.
È DI QUESTO, di magia e di bugia che sono fatte le relazioni famigliari». È un motivo che torna nei suoi film, in cui la distanza tra la realtà dei rapporti e la loro rappresentazione scorre sempre su una duplice crepa labile e insieme tenace. Anche Lumir mente alla figlioletta, le dice che il padre (Ethan Hawke) è sul set quando è invece è in rehab (è alcolista) e lui a chi chiede perché non beve risponde che è per prepararsi a un grande ruolo. Eppure non è solo di questo che è fatta La vérité (nelle nostre sale il 3 ottobre con Bim); nell’interno familiare Kore-eda costruisce la sua messinscena della rappresentazione, quasi un disvelamento dell’essenza del narrare, dunque del cinema, e non solo per l’universo a cui appartengono i suoi personaggi.
L’OSCILLAZIONE tra un istante di verità e di abbandono che subito si piega alle esigenze del proprio ruolo, persino con cinismo o con smaliziata consapevolezza ne mostrano una sostanza, un funzionamento che è quello proprio del racconto. E anche lui, il regista, vi partecipa, dissemina tracce di una sua verità, e di una sua magia, allusioni alla realtà (un autore che muove troppo la macchina di cui parla Fabienne/Deneuve a proposito di un suo film recente: Lars von Trier?). Fabienne non è un po’ Deneuve l’icona bionda del cinema francese, che all’inizio aveva un doppio bruno, la sorella Françoise Dorleac,morta in un incidente, pure se questa non è naturalmente la storia della sua vita. E la giovane attrice che somiglia a Sarah, l’amica che Lumir amava più di lei, da cui si sentiva derubata ha gli occhi di cerbiatto vuole invece essere solo se stessa: «Nessuna eredità sulle mie piccole spalle». Nell’autunno parigino di foglie che si tingono di giallo e di rosso è come se fossimo sempre là dove tutto è già accaduto mentre sta accadendo, un tempo che si dilata, che sorprende, che scorre tra appunti distratti di malinconia e di rivelazioni. Forse il nonno è tornato a essere la tartaruga in giardino, forse Fabienne è davvero una strega. L’importante è crederci. O provarci. E il cinema non è questa magia?
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