«Di fronte al salto di qualità dell’Isis serve anche una risposta politica»
Intervista Arturo Varvelli, responsabile Osservatorio terrorismo dell'Ispi: «I servizi occidentali non si scambiano le informazioni, e i terroristi ne approfittano». Il Giubileo? «Non mi aspetto rischi maggiori di quelli di questi giorni»
Intervista Arturo Varvelli, responsabile Osservatorio terrorismo dell'Ispi: «I servizi occidentali non si scambiano le informazioni, e i terroristi ne approfittano». Il Giubileo? «Non mi aspetto rischi maggiori di quelli di questi giorni»
«Siamo di fronte a un salto di qualità da parte dello stato islamico, ma la sola risposta militare non serve: occorre un’operazione di ricostruzione degli stati, solo così si può stabilizzare il Medio oriente». Arturo Varvelli è responsabile dell’Osservatorio terrorismo dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi).
Finora Daesh ha sempre colpito l’Occidente in maniera mirata: il museo ebraico di Bruxelles, Charlie Hebdo, l’ipermercato kosher. Gli ultimi attentati di Parigi – che hanno colpito in maniera indiscriminata locali pubblici – rappresentano un cambio di strategia?
Difficile dirlo. Non sembrerebbe proprio così in quanto le due cose sono procedure sempre parallelamente E’ vero che rispetto al Al Qaeda lo Stato islamico ha sovvertito l’ordine delle priorità, perché volendo raccontarsi come uno stato, una sorta di proto-stato, il suo primo nemico sono i paesi che confinano con i propri territori e che non gli permettono di rafforzare il proprio elemento di statualità. Però non si può dire che prima non avesse come nemico l’Occidente, che è qualcosa connaturata con la natura stessa del Califfato. Non parlerei quindi di un cambio di strategia, probabilmente eravamo noi a illuderci che l’Isis fosse meno pericolosa di Al Qaeda e meno capace di compiere attentati su larga scala. In effetti quelli di Parigi, seppure sofisticati, non raggiungono i livelli di sofisticatezza del 2001 americano. Certamente siamo di fronte a un salto di qualità.
E’ anche la prima volta che un kamikaze viene utilizzato in Europa.
Questo è piuttosto indicativo per quanto riguarda le persone: jiadisti autoctoni europei ma che hanno avuto contatti con la scena siriana e irachena e in qualche maniera si sono assuefatti alla violenza.
Sembra che i servizi francesi sapessero dell’imminenza di un attentato, ma neanche questa volta hanno saputo prevenirlo. Come mai?
Lo capiremo nei prossimi mesi, ma immagino che possa saltare anche qualche testa perché davanti a due eventi simili che succedono nell’arco di pochi mesi un responsabile a livello politico dovrà essere trovato. Sarà interessante capire se c’è stato anche in questo caso, come molte volte succede nel controterrorismo, un eccesso di informazioni. Ci sono informazioni in surplus. Tutti i giorni i servizi ricevono informazioni di vario tipo che parlano di possibili attentati in preparazione e di possibili uccisioni e la fase più difficile è quella di selezionare queste informazioni. Il problema è capire se gli attentati segnalati si possono concretizzare domani mattina, mai o tra cinque anni. Il secondo punto che penso sia importante sottolineare e testimoniato direttamente da quanto accaduto a Parigi, è che non c’è una completa sovrapposizione tra le informazioni che hanno i diversi paesi. Anche in questo caso abbiamo visto che il Belgio aveva alcune informazioni chiave sui terroristi che la Francia non aveva. Quindi quando alcuni elementi stavano tornando in Belgio i francesi non li hanno fermati. Questi network, queste organizzazioni terroristiche possono ancora giocare su questi fatti perché sanno benissimo che i vari paesi non hanno le stesse informazioni perché gli stati nazione faticano a condividerle.
La Francia è in guerra e il presidente Hollande ha chiesto agli stati europei di affiancarlo. E’ giusto o rischiamo di fare un altro errore come nel 2011 con la Libia?
C’è la necessità da parte degli Stati occidentali, in particolare della Francia ma anche della Russia, di dare una risposta adeguata a quanto avvenuto e naturalmente si tratta di una risposta militare. Dobbiamo però essere realisti e sapere che non è la soluzione al problema perché abbiamo già visto in passato, dalla guerra in Afghanistan, a quella in Iraq a quella in Libia, che il semplice impegno militare non è una garanzia di successo: a volte vincere la guerra non significa vincere la pace. Non rendiamo automaticamente più democratiche e pacifiche queste aree che spesso invece destabilizziamo. Quindi accanto all’azione militare occorre che ci sia un’azione politica. Dovremmo passare dal counter terrorism puro, a qualcosa che assomigli di più allo state building, alla costruzione dello Stato. Solo così si può pensare di ristabilizzare il Medio oriente
Il problema è che dall’altra parte c’è un nemico che non vuole dialogare, convinto che l’Occidente sia composto da infedeli che vanno uccisi. E questo taglia le gambe alla politica.
Sì questo è uno dei problemi ma non bisogna agire di pancia, occorre essere consapevoli che il Daesh non è una responsabilità solo occidentale ma è anche un sottoprodotto di un islam, di un modo arabo che è frammentato e in cui in questo momento c’è una corsa di leadership. Daesh cerca di accaparrarsi questa leadership. E’ lì che dobbiamo giocare, è lì che dobbiamo conquistare i cuori e le menti delle persone.
Tra poco comincia il Giubileo: cosa dobbiamo aspettarci?
Io non mi aspetterei nulla, perché abbiamo visto che i terroristi si presentano a ogni occasione non solo nei grandi eventi internazionali, l’Expo è passato senza alcun problema. I terroristi sanno anche che quando ci sono questi grandi eventi le misure di sicurezza preventive sono sempre maggiori. Non lancerei nessun tipo di allarme.
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