Una lettura attenta del discorso di Draghi al Senato aiuta a capire molte cose, non solo della crisi di un governo, ma dello stato della nostra democrazia. L’intervento del presidente uscente è stato un attacco alla autonomia e centralità del Parlamento. Un Premier contro il Parlamento, questo lo spartito. La polemica con Conte e Salvini era senz’altro sullo sfondo.

Si è trattato di un caso di populismo delle classi dirigenti. Di populismo delle élites. Sia all’inizio che alla fine Draghi ha detto infatti che gli Italiani sono con lui, favorevoli al “miracolo civile” del suo governo, di contro ai Partiti e ai loro giochi di potere. Giustamente Norma Rangeri ha parlato di “sfuriata populista” del premier uscente.

Draghi ha ricordato che “lo scorso febbraio”, ma in verità nel febbraio 2021 (forse un corto circuito con il febbraio della mancata elezione a Presidente della Repubblica), Mattarella gli affidò il governo per affrontare l’emergenza a partire da una maggioranza di “unità nazionale”. Per aggiungere perentoriamente: “L’unità nazionale è la miglior garanzia della legittimità democratica di questo esecutivo”. Chi lo ha detto? La democrazia è il sistema dei governi di unità nazionale? Che idea di democrazia ha chi ragiona così? Democrazia è in verità il sistema in cui una maggioranza coesa e omogenea, programmaticamente e politicamente, governa controllata e criticata da una opposizione altrettanto coesa e alternativa.

E invece un’operazione di Palazzo portò alla fine del governo Conte 2, quello sì un governo politico e impose la soluzione appunto con il tecnico e la maggioranza con quasi tutti dentro. Antonio Polito sul Corriere della Sera ha lamentato la caduta del governo Draghi e la sua troppo breve durata parlando di “maledizione dei governi di unità nazionale, e anzi della politica italiana tout court”. Evidentemente politica e unità nazionale per gli opinionisti della grande stampa coincidono.

Al contrario Draghi nel suo anno e mezzo di permanenza a Palazzo Chigi ha mostrato tutti i limiti sia della sua capacità di governo che della formula stessa. Il paese è stato governato mediocremente (ha ottenuto gli stessi risultati che avrebbe ottenuto Conte senza la congiura di Palazzo) e non ha retto neanche la maggioranza che infatti è implosa.

Indubbiamente è il quadro di una crisi di sistema, di “progressivo spappolamento e avvitamento del nostro sistema politico” come scrive ancora Norma Rangeri. Su una democrazia stretta fra populismo dall’alto e dal basso, delle élite e delle periferie, è poi caduto l’appello finale di Draghi: occorre un “governo forte e coeso”. Anche qui un errore di valutazione evidente, cui hanno fatto seguito parole di sfida a Parlamento e politica: “Siete pronti a ricostruire questo patto?” E ancora: “Siete pronti a confermare quello sforzo che avete compiuto nei mesi scorsi?” Ma si imposta così la dialettica governo/parlamento? Si chiede così la fiducia alle Camere? Nella nervosa replica, Draghi ha assicurato che non chiede “pieni poteri”. Meno male. Se Letta per “giornata di follia” si riferiva a queste parole si potrebbe convenire.

Di certo “il giorno più lungo” di Draghi è stato un brutto giorno. Una brutta pagina di vita parlamentare, di vita politica del paese.
Ma ora siamo di fronte alla sfida elettorale, difficile e ravvicinata e il problema si chiama sinistra. Ormai non ha senso neanche parlare di crisi. È mancata una parola, un’analisi, un segnale alla società, un atto di presenza. Speranza, Bonelli, Fratoianni pensano al “campo largo” col Pd. Ma, come hanno scritto sul manifesto Anzolin e Caruso, la sinistra dovrebbe “abbandonare il piccolo cabotaggio”. Purtroppo sono cose che ci diciamo da decenni.

Manca sempre però il punto di caduta politico. Quale partito della sinistra? Quale insediamento sociale? Quale progetto? Non è problema “organizzativistico”, ma di qualità della politica e della democrazia, potrebbe trattarsi addirittura del contributo alla soluzione di una crisi organica, capire questo sarebbe già tanto. Dovrebbe assillarci la domanda fatale: “se non ora, quando?” Ma forse più che della domanda abbiamo paura della risposta.