Monica Sarsini, fiorentina, si è inventata da molti anni una scuola di scrittura che non ha molto a che fare con quelle ideate dall’ottimo Baricco, anche se ha ugualmente prodotto diversi testi interessanti per ragioni che non sono però esclusivamente letterarie. Artista visiva, spericolata e ambiziosa anche sul piano letterario, in La Portavoce. Racconti delle detenute di Sollicciano (pp. 152, euro 14), sistema e ricompone i testi di più donne in uno e unico, interrotto dalle ampie citazioni da altri. Sembra una sorta di coro volta a volta rotto da degli a-solo, come in qualche antica partitura. Lo pubblica, con il sostegno della Chiesa Valdese, una piccola casa editrice fiorentina, Contrabbandiera, che vorremmo alla prova con altri testi ugualmente insoliti e ambiziosi. E in qualche modo non segnati dal narcisismo di chi mira a vincere lo Strega.

Se ne parliamo non è solo per polemica con i prodotti di scuole di scrittura ormai tradizionali e imperanti, che hanno prodotto tanti scrittori e soprattutto scrittrici mediane e mediani ma ben pochi outsider, mai degli apripista, dei radicali – almeno tra quelli più affermati, che mi pare si muovano tutti o quasi dentro una medietà della lingua e del progetto infine conformista.

Ne parliamo perché la scrittura – una scuola di scrittura – se ben impostata e gestita, può certamente diventare scuola di tante cose, di conoscenza di sé da parte degli allievi o in questo caso allieve, e di espressione del sé, di dialogo col passato e col presente, il «personale» e il «pubblico» uniti e divisi, e insomma con tutto quello che di più importante si ha tutti il bisogno di capire, con cui si ha il dovere di confrontarsi.

Le carcerate di Sollicciano sanno questo istintivamente, perché sono estranee all’idea del successo letterario, così come vi è estranea la loro maestra, o meglio stimolatrice. Ma insomma, se anche i maestri e gli allievi delle scuole di scrittura «in libertà» capissero che sono anche loro, che siamo noi tutti chiusi in carceri che spesso ci siamo costruiti da soli, e cercassero/cercassimo nella scrittura ma anche in tante altre cose qualche forma di libertà, fuggendo dalla prigione in cui ci siamo fatti rinchiudere, non ostinandoci a elevare, aiutando i nostri carcerieri, altre costrizioni, altre strade obbligate, altre illusioni di breve fiato, altre consolazioni risibili ed effimere? Altre verità, altra «comunicazione»…