Desmond Tutu, «Ubuntu» o dell’amicizia fra i viventi
Ho avuto la fortuna di conoscere Desmond Tutu nel 2003, al Controvertice di Johannesburg organizzato dai Dannati della Terra in risposta al Vertice Mondiale che era stato invece organizzato, dai Padroni della Terra negli stessi giorni e in quella città. Ho anche avuto la fortuna di marciare, dietro di lui, il 31 agosto di quell’anno, da Alexandra, il quartiere orribilmente povero di Johannesburg, a Sandron, il quartiere orribilmente ricco, assieme a tutti i movimenti rurali e metropolitani che si opponevano alle privatizzazioni, agli sfratti, alla biopirateria, allo sfruttamento dell’acqua, dei semi, dei geni e a tutti gli «aiuti» che mascheravano un nuovo ecocolonialismo e un più aggressivo capitalismo.
HO AVUTO SOPRATTUTTO la fortuna di sentirlo parlare – circondato dagli Anziani Saggi e da Grandi Madri vestite di colori e di sole – di tutto il dolore del Sudafrica , dell’apartheid, del genocidio della sua gente, a cui contrapponeva una strana parola, che non esiste nella lingua italiana e che non esiste nemmeno nella nostra mente: Ubuntu, una parola splendida della lingua nguni-bantu che significa molte cose. Nella famiglia è la solidarietà e la prossimità di soccorso; nel villaggio è la cooperazione e il senso collettivo di appartenenza; nella nazione è lo spirito comunitario e il riconoscimento politico di essere intessuti in una Rete sociale e naturale nonché la consapevolezza , come dice un motto presente in almeno sei lingue sudafricane, che «motho ke motho ka motho yo mongue», ovvero che «una persona è una persona in quanto relazionata ad altre persone», nobile formulazione di interdipendenza umana che esprime l’essenza stessa di quel messaggio di amicizia su cui si è fondata la “Carta della Libertà” dell’African National Congress e poi la prima Costituzione libera sudafricana.
NEL LINGUAGGIO di Tutu, Ubuntu però significava soprattutto il principio etico della riconciliazione e del perdono, un principio inderogabile di «umanità verso gli altri» scaturito dal legame religioso di dono reciproco e benevolenza che lega ontologicamente l’intera Umanità. Lo aveva fatto valere nella Commissione per la Verità e la Riconciliazione, istituita nel 1995 dal Parlamento sudafricano e dal Presidente Nelson Mandela, con «lo scopo di ricercare la verità, attraverso l’analisi e la comprensione degli avvenimenti del passato in relazione alle cause e alle circostanze nelle quali gravi violazioni dei diritti umani hanno avuto luogo e in modo da impedire il ripetersi delle sofferenze e delle ingiustizie dell’apartheid», nonché «di promuovere l’unità e la conciliazione morale in nome del benessere di molti cittadini del Sudafrica e della pace».
LA COMMSSIONE LAVORÒ per tre anni. Nel Rapporto finale, consegnato da Tutu a Mandela dopo pubbliche audizioni in tutto il Paese, raccogliendo confessioni, testimonianze, lamenti dei sopravvissuti e delle vittime , il quadro di violenza dell’apartheid era agghiacciante. Nessuna pietà sembrava possibile di fronte al resoconto delle torture, degli omicidi, degli stupri, delle menomazioni fisiche e psicologiche commesse sulla popolazione nera non solo da privati cittadini, ma da tutto l’apparato istituzionale e civile degli «afrikaners» – dall’ex Presidente Botha, all’ex Ministro della difesa Malan, nonché dal Consiglio di Sicurezza dello Stato, dai Servizi Segreti e dalla Polizia sudafricana. Eppure anche di fronte a tutto questo, Tutu pronunciò questa strana parola: Ubuntu, perdono, riconciliazione e perdono.
Agli occhi stupiti del mondo, la Commissione divenne così uno strano tribunale, incomprensibile entro i canoni della giustizia occidentale. Non poteva condannare ma poteva solo assolvere, però dopo aver accertato la verità. I torturatori, gli assassini, gli stupratori dovevano cioè confessare pubblicamente i crimini commessi dal 1961 al 1994, dopo di chè venivano amnistiati.
UNA COSA APPUNTO incomprensibile – come si vede nei bei film di Boorman, di Roodt , di Suleman – che aveva come fine uscire dal codice della violenza e dalla spirale della vendetta e soprattutto, ridare dignità alle vittime. «Ogni volta – scriveva Tutu nella Relazione finale – ogni volta la gente ha implorato di conoscere cosa è successo al proprio padre, alla madre, alla sorella, al fratello, alla figlia e al figlio. Sapere dove tutti sono seppelliti. E ogni volta la Commssione ha scoperto aggressioni, torture, assassini….ogni volta ha dovuto ferire le vittime…ma si è trattato di un male necessario perché ha obbligato i sudafricani ad affrontare una realtà che avevano scelto di ignorare , facendo finta di non vedere.
La Commissione cioè ha imposto la verità, senza censure e senza rimozioni». La verità – la forza della verità, come diceva Gandhi da analoghe posizioni non violente – vale per le vittime più della vendetta. Se i torturatori non si fossero fatti avanti per dirla, i crimini sarebbero caduti nel silenzio mentre la dimenticanza sarebbe caduta sulle vittime , sulle loro storie, sui loro nomi (la Commssione scelse infatti di pubblicare tutti i nomi delle vittime e non solo dei torturatori).
DESMOND TUTU, premio Nobel per la Pace, scelse cioè di dare alle vittime una riparazione simbolica, la stessa che dovremmo offrire oggi alle vittime dei naufragi, alle loro storie, ai loro nomi. Inoltre rese possibile la costruzione della nuova nazione colpendo al cuore l’ideologia dell’apartheid. L’apartheid aveva impostato il suo sistema di discriminazione sull’ideologia dello «sviluppo separato», ovvero sulla accentuazione e l’irrigidimento delle differenze etniche, razziali, culturali, presupposte come «ontologiche» e addirittura fondate sulla differenza che Dio, nell’atto della creazione, volle dare alle razze. Dire invece che la nuova nazione doveva saper rispettare le differenze all’interno di un più alto concetto di Umanità, all’interno dell’Ubuntu, significava invece fare una rivoluzione e non solo sul piano religioso, ma antropologico e politico.
Perdonare significava quindi reintrecciare i vissuti e riconciliarsi un modo per assicurare ai diversi l’amicizia e la pace in nome di una memoria comune, un passato comune, una pietà comune. Perché, come disse ancora Tutu in quel memorabile seminario di lotta e di speranza, «dove una menoria comune è assente, dove gli uomini non sono più partecipi di uno stesso passato, non ci può essere alcuna effettiva comunità, non ci può essere Ubuntu». La richiesta di perdono era quindi una richiesta di vita, una promessa di cambiamento. Non era, conluse Tutu, «un voler girare le spalle alla belva, ma un sacro dire ‘mai più’».
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