Cultura

Dennis Lehane, Boston, andata e ritorno dall’odio

1974, studenti neri scortati dagli agenti nelle scuole di South Boston, foto Getty Images1974, studenti neri scortati dagli agenti nelle scuole di South Boston – Getty Images

L'intervista In «Piccoli atti di misericordia» (Longanesi) la crisi del ’74 per la desegregazione delle scuole. L’autore di «Mystic River», tra i più noti scrittori Usa, torna su una vicenda chiave della storia del Paese. «Avevo 9 anni quando ho visto il razzismo prendere corpo nelle persone che amavo. Il romanzo nasce dalla rabbia che da allora mi porto dentro»

Pubblicato più di un anno faEdizione del 6 luglio 2023

C’è un’immagine nel nuovo romanzo di Dennis Lehane, Piccoli atti di misericordia (Longanesi, traduzione di Alberto Pezzotta, pp. 318, euro 19,90) che racconta un’epoca intera e uno dei passaggi chiave della recente storia americana. Ted Kennedy, per tutti a Boston semplicemente «il senatore», che è costretto ad abbandonare di corsa la Center Plaza, antistante l’edificio intitolato a suo fratello ucciso a Dallas nel 1963, coperto di sputi e di fronte ad una folla minacciosa che gli urla: «Dove vanno a scuola i tuoi figli, Teddy?».

Dennis Lehane, foto di Gaby Gerster (Diogenes Verlag)

È il 9 settembre del 1974 e il tribunale distrettuale del Massachusetts ha stabilito che per realizzare appieno la desegregazione razziale nelle scuole, ogni giorno degli alunni neri saranno portati in autobus per frequentare le scuole dei quartieri bianchi e viceversa. Dopo due decenni di mobilitazioni razziste nel Sud del Paese, il tema sbarca a Nord, in una città a maggioranza democratica, dove nei quartieri della working class irlandese cresce una protesta violenta e rabbiosa che durerà perlomeno fino al 1976 – la cosiddetta Boston busing crisis -, evidenziando come quello razziale sia un confine che attraversa l’intero spazio degli Stati Uniti.

È questo il contesto nel quale Dennis Lehane, tra i maestri del noir contemporaneo, ha ambientato una storia drammatica che racconta della scomparsa di una ragazza e delle ricerche disperate che la madre compirà violando le leggi non scritte di zone dominate dalla malavita e da vincoli famigliari e comunitari. Nato nel 1965 a Dorchester, epicentro, al pari di altre zone di South Boston, di quelle proteste, Lehane ha sempre ritratto il mondo degli irlandesi della città, tra i quali è cresciuto, indagando da Mystic River a Gone, Baby, Gone, solo per citare due tra i titoli più fortunati della quindicina di romanzi che ha firmato (al pari di serie tv come The Wire) fino ad oggi, contraddizioni e limiti di una realtà in apparenza chiusa ma capace di grande solidarietà e empatia. Con Piccoli atti di misericordia, che come ci ha anticipato l’autore diventerà una serie per Apple Tv, compie però un passo ulteriore, dando forma ai propri fantasmi interiori e illuminando una fase di crisi che, a mezzo secolo dai fatti, sembra interrogare ancora la società americana.

Partiamo dalle vicende che fanno da sfondo al romanzo, perché ha deciso di raccontare la «crisi degli autobus» di Boston del 1974?
Scriverlo è stato come un esorcismo: avevo bisogno di eliminare tutta una serie di sensazioni che mi perseguitavano da quando ero ragazzino. All’epoca, mi era capitato di assistere a situazioni drammatiche e sconcertanti che mi hanno segnato a lungo.

All’epoca aveva solo 9 anni, cosa ricorda di quel periodo?
Prima di tutto la rabbia e la violenza. Ricordo le proteste nelle strade, le persone che lanciavano sassi contro gli autobus che portavano i ragazzi neri. E c’erano graffiti razzisti ovunque nel mio quartiere.

Perciò, cosa di quella stagione violenta ha continuato a tormentarla fino ad oggi?
Per tutta la mia vita mi sono sentito come se ci fosse qualcosa che stavo cercando di capire, di mettere a fuoco, e credo si tratti della rabbia. Ho avuto dei genitori meravigliosi, un’educazione molto stabile, in una zona, invece piuttosto instabile. Ma nel mio passato non ci sono dei grandi traumi. Eppure dai miei libri emerge come ci sia un sacco di rabbia dentro di me. Spesso, scrivendo, me ne sono stupito io stesso, poi, quando ho cominciato a lavorare a Piccoli atti di misericordia ho capito: «Oh, ma è questo ciò per cui sono arrabbiato». Avevo 9 anni quando è successo. E le persone che avevo intorno, che ammiravo, che incontravo in chiesa, che vedevo camminare per le strade del quartiere e farmi grandi sorrisi, beh tutte queste persone erano preda di un odio viscerale verso altri esseri umani semplicemente a causa del colore della loro pelle. Non riuscivo a capirlo. E per i successivi 10 anni mi sono sentito come una spia sotto copertura che viveva dietro le linee nemiche perché non riuscivo a capire: mi dicevo lasciali parlare… E anche quando hanno iniziato a capire che non ero anch’io così, la gente ha continuato a comportarsi allo stesso modo: sentivo costantemente la parola «N» ripetuta da tutti. Non c’era modo di giustificare ciò a cui assistevo. Ma dovevo fare i conti con il fatto che tra i responsabili non c’erano solo persone che ammiravo, ma anche alcune di quelle che amavo di più, i miei amici più cari o un membro della mia famiglia. E come si può fare i conti con tutto questo quando hai 9, 10 o 11 anni? Ci sono voluti 3 anni per cambiare il sistema scolastico pubblico di Boston, e anche alla fine il razzismo era ancora tutto lì, ma nel frattempo era questa l’aria che respiravo 24 ore su 24, 7 giorni su 7.

In questo contesto, come è nato il personaggio della protagonista, Mary Pat che, almeno all’inizio, partecipa alle proteste e sembra nutrirsi di rabbia e di odio.
Crescendo in quei quartieri ho conosciuto alcune donne come lei, ma penso che quasi nessuno le abbia raccontate in un romanzo. Stavo sfogliando un libro di fotografie dell’epoca delle proteste e ho visto diverse donne che sembravano così, che assomigliavano all’idea che aveva iniziato a prendere forma nella mia mente. La storia del libro è nata intorno al suo personaggio. Una donna che per la maggior parte del tempo tira su i figli da sola in zone come Dorchester o Southie. Un’attaccabrighe, forte fisicamente, bassa, in continuo movimento. È senza paura, è arrabbiata, è razzista, è un’alcolizzata ed è una fumatrice accanita. Questa era la prima immagine. Poi ho cominciato a pensare che proprio alla vigilia del primo giorno della desegregazione, quando sono arrivati i bus degli studenti neri, questa donna stesse cercando di ritrovare sua figlia che era sparita apparentemente senza motivo. E che si sentisse come se non avesse più niente da perdere, come se ritrovarla o capire cosa le fosse successo fosse l’ultima cosa che le restava da fare nella vita.

La via che Mary Pat intraprende per cercare di ritrovare sua figlia la porterà a mettere in discussione la propria comunità, la sua stessa famiglia e a rifiutare l’odio e la violenza in cui è cresciuta. Una dolorosa consapevolezza che si intreccia a quanto le sta accadendo intorno: è qui il vero cuore del libro?
Senza dubbio. Mary Pat affronta due itinerari allo stesso tempo. Il primo è quello esterno, nello spazio in cui si muove, ed è davvero eroico. Vuole scoprire cosa è successo a sua figlia e contro ogni previsione vuole davvero ottenere giustizia, qualunque cosa serva per raggiungere questo scopo. Il suo viaggio interiore è invece molto meno eroico, e sta solo a lei capire esattamente quanto lontana la porterà dal punto in cui è partita. È un viaggio che compie dentro l’odio che prova. E a lei il razzismo è già costato le persone che ama.

Nel romanzo sembra emergere come oltre al razzismo, all’epoca, si sia assistito anche ad una sorta di scontro sociale…
Effettivamente furono i poveri ad essere messi l’uno contro l’altro lungo le linee della «razza». Se la desegregazione delle scuole pubbliche di Boston fosse avvenuta a livello di contea, comprendendo sia i quartieri popolari che le periferie residenziali, penso che le cose sarebbero andate diversamente. Invece tutto si concentrava sui quartieri della classe operaia dove una parte consistente degli abitanti pensò di non essere stata consultata. Si deve però anche ammettere che allora gli afroamericani non erano i benvenuti nelle zone ricche come in quelle dei bianchi poveri: erano i benvenuti solo nei loro quartieri. È questa l’enorme macchia morale che pesa ancora su Boston.

Il romanzo racconta l’inizio degli anni ’70, eppure sembra parlare della realtà odierna degli Usa. Voleva dire qualcosa anche su ciò che ha intorno oggi?
Penso di si. C’è un vecchio detto nel mondo della letteratura, che dice che un libro non riguarda il tempo in cui è ambientato, bensì il tempo in cui è scritto. Quindi, ogni volta che diciamo qualcosa sul passato, c’è una ragione ben più stringente che ci muove. Del resto, quando si assiste alla rinascita dei movimenti del «potere bianco», del suprematismo, non solo nel mio Paese, ma anche in Italia, in Francia, in Germania, in Polonia… Stiamo assistendo a questa rinascita perché mentre il mondo diventa sempre più complicato e le vecchie tradizioni e i vecchi costumi vanno nel dimenticatoio, le persone sono confuse e spaventate. E quando le persone sono in preda all’incertezza e hanno paura tirano fuori i loro istinti peggiori. E tra questi ci sono il razzismo, il nativismo, il nazionalismo.

Lei vive da tempo a Los Angeles, dopo la pubblicazione di questo romanzo è tornato a Dorchester per capire come hanno accolto il libro coloro che abitano ancora in quelle zone?
Non ho registrato reazioni negative, ma è anche vero che non posso esserne così sicuro. Voglio dire che chi vuole esprimere qualcosa di negativo lo farà nel chiuso di casa sua, non pubblicamente. Perché, cosa fai, ti metti a difendere il razzismo? Detto questo, credo che Boston sia cambiata molto, anche se non completamente. Ma quartieri come South Boston e la parte di Dorchester dove sono cresciuto sono cambiati del tutto negli ultimi cinquant’anni. E credo sia anche possibile che la maggior parte delle persone che leggono questo libro e che vivono oggi a South Boston non abbiano mai sentito parlare di quanto accadde allora. Anzi, lo trovo molto probabile. Perciò, il romanzo sarà servito almeno a fargli conoscere qualcosa che ignoravano.

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