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Democrazia in crisi, tra astensionismo e tecnocrazia

Democrazia in crisi, tra astensionismo e tecnocrazia

Quando i sindaci di grandi città, a partire da Roma, al ballottaggio, sono eletti da un quarto dei cittadini, è un evidente segnale di sofferenza democratica. Non si tratta di […]

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 9 novembre 2021

Quando i sindaci di grandi città, a partire da Roma, al ballottaggio, sono eletti da un quarto dei cittadini, è un evidente segnale di sofferenza democratica. Non si tratta di un incidente di percorso. Neppure il Pd, uscito vincitore da questo turno elettorale, ha nulla di cui rallegrarsi.

L’elevato astensionismo colpisce tutti. Rappresenta un vulnus su cui è utile riflettere. Se il popolo ritiene inutile recarsi alle urne significa che non crede più nel momento elettorale come occasione di cambiamento. Esprime delusione e rabbia rimanendo a casa.

C’è poi una minoranza che manifesta il proprio disagio aderendo alle proteste contro tutto ciò che sembra limitare le libertà individuali. Altri motivi, naturalmente, spingono all’astensione. Pensiamo al ruolo alienante dei social, forma illusoria di partecipazione al dibattito pubblico, veicolo di subcultura che si autoalimenta pericolosamente attraverso una disinformazione sistematica e campagne d’odio. Ragioni politiche e culturali, dunque, si intrecciano e allontanano i cittadini dalle urne.

Tra i fattori che hanno contribuito ad alimentare il fenomeno dell’astensionismo di massa, non sottovaluterei “l’effetto Draghi”, il carattere anomalo del suo governo. Un governo di “tutti”, nel quale comandano veramente in “pochi”, che sono poi i ministri “tecnici”. La fiducia della maggioranza dei cittadini nei confronti dell’ex banchiere, chiamato a guidare il paese in un momento critico e delicato, è grande e incondizionata.

Senonché questo orientamento largamente diffuso, verso una personalità certamente autorevole e rassicurante, implica all’atto pratico una sostanziale delega in bianco, l’apatia politica, la diserzione dalle urne. A che serve votare se ci governa un signore competente, stimato in Europa, e se i partiti contano poco o niente?

Il governo di tutti, in questo contesto, rischia di farci scivolare oggettivamente, aldilà della volontà dello stesso Draghi, verso un’oligarchia tecnocratica che decide, senza alcun controllo parlamentare, sulle scelte strategiche riguardanti l’economia e la gestione del Pnrr. I ministri “politici” non hanno voce in capitolo sulla gestione della transizione ecologica e della trasformazione digitale. E si dividono tra “governisti” e quelli “di lotta e di governo”, contribuendo ad offrire un’immagine deteriore della politica che accentua il distacco dei cittadini.

I partiti parlano d’altro, mettendo ancor più in evidenza la perdita di ruolo. Nel combinato disposto tra astensionismo di massa, movimento “libertario” fomentato dalla estrema destra e consenso verso un modello di governo tecnocratico, in cui i partiti sono di fatto marginalizzati, non è difficile intravedere i segni di una democrazia che non gode affatto di buona salute.

In un paese sfibrato dalla pandemia e alle prese con una crisi sociale di notevole complessità, è facile cedere alla tentazione di affidarsi ai “migliori”. Tanto più in una situazione in cui i partiti appaiono più gusci vuoti che strumenti di partecipazione. Fanno al massimo un po’ di propaganda sui mass media, in balìa degli umori cangianti dell’opinione pubblica.

Ogni vittoria elettorale, in queste condizioni, è del tutto effimera e provvisoria. Se queste considerazioni hanno un fondamento, la difesa e il rafforzamento delle basi della nostra democrazia e dei vali fondanti della Repubblica italiana dovrebbero essere in cima ai pensieri delle forze di sinistra.

Purtroppo, queste forze vivono una crisi profonda da cui stentano ad uscire. Sulle piccole formazioni comuniste, che alle ultime elezioni si sono presentate in ordine sparso e hanno raccolto lo “zero virgola”, Norma Rangeri ha scritto parole taglienti (e, credo, definitive). Per tanti che ancora pensano che

il comunismo sia un «movimento reale» è deprimente vederlo ridotto al pari di una reliquia da custodire gelosamente.

Proprio dalla debolezza e irrilevanza della sinistra in grande misura discende la rinascita, in forme nuove, del vecchio elitismo liberale, con tutto ciò che ne consegue in termini di potere e di scelte economiche e redistributive. Sta qui l’urgenza di ricostruire un campo di forze progressiste ed ecologiste che provi a sparigliare le carte, dando vita a un movimento unitario e di massa che parta dai problemi concreti. A meno che non si preferisca una sconfitta certa e duratura.

Il segretario del Pd ha annunciato l’avvio di agorà aperte, ritagliandosi il ruolo di “federatore” di un campo largo. L’obiettivo è un rassemblement elettorale in grado di contrapporsi al fronte del centro destra ed essere competitivo quando si voterà. Il progetto è legittimo e risponde ad un’esigenza reale. Ma tende ad eludere e a sottovalutare sia il tema della democrazia che il rischio di una svolta tecnocratica ed autoritaria.

Un cartello elettorale, che si proponga di aggregare posizioni che vanno dal liberalismo democratico al socialismo, può costituire un momento unitario di passaggio soltanto se cerca una forte motivazione politica nella ripresa della partecipazione democratica alle decisioni e nella riapertura di una stagione di lotte.

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