Molto, quasi tutto, d’una antichità italiana è attualmente polverizzato. Lo possiamo intendere solo che si consideri l’Italia dei nostri giorni ragionandola nella sua dimensione turistica. Da questo punto di vista, se poniamo il nostro osservatorio in una delle città d’arte, come oggi son designate nei talk show, e da lì svolgiamo dattorno la nostra ricognizione, nelle vie secolari, nelle celebrate piazze, nelle chiese e nei palazzi, facilmente constateremo gli effetti del rullo compressore messo in azione dal turismo degradato che è oggi imperante e dilagante (un ‘commercio’ tanto invocato, attirato e favorito dai governi del nostro sfortunato paese, il ‘bene culturale’ programmato come occasione di un buon affare da non perdere).

La troveremo invasa la nostra città (e offesa nelle sue virtù di storia e d’arte) da un turismo fatto di strascicato podismo e di gastronomia precotta, che si muove sudato (tra meraviglia e ottusità insieme) tra i monumenti, attraversa, con inerte stupore e rare sorprese, le sale di musei forniti di buffet e di gadget (il David e il Colosseo, divertenti portachiavi in plastica; la Primavera e l’Ultima cena con la calamita, da attaccarsi al frigorifero). Un turista che ha ridotto l’antichità italiana a un indirizzario di bed and breakfast e ad un percorso di fast food saggiamente installati (con regolare licenza comunale) di fronte alle cattedrali, ai palazzi, ai panorami più celebrati.

Un turista al quale si vendono gli sfondi che gli sono indispensabili per il prestigio delle decine dei suoi selfie (allora sì, davvero valeva la pena – e la spesa – un viaggio in Italia, da Chicago a Roma, da Tokyo a Firenze, da Barcellona a Venezia).

Le mie considerazioni sono volte all’Italia del turismo. Un grande affare che porta ricchezza, senza dubbio. Così, per una associazione di idee quasi inevitabile, mi dico che non è senza costrutto portare il ragionamento sui modi specifici (o si dica le sorgenti e le maniere cioè i capitali) che presiedono all’incremento della ricchezza in Italia. E allora mi avvedo che dell’antichità italiana persistono tuttavia lasciti rilevanti e, in ogni caso, ben attivi che riconosciamo nella loro secolare continuità. Così in questo discorso sul turismo fonte di ricchezza un retaggio mi viene a mente che mantiene una sua cifra originaria, antica, ben rigoglioso (si consolida e primeggia) e che svolge in Italia il suo assai rilevante, secolare ruolo.

Intendo riferirmi alla operante presenza della cultura e delle attività che chiamiamo mafiose (mafia, ndrangheta, sacra corona unita, camorra). Una cultura e una attività delle quali nulla si intende quando vengano sottoposte alla deformante reductio al solo elemento omicida. Elemento tanto essenziale quanto periferico rispetto al centro vitale della cultura mafiosa (costituito da una adamantina intelligenza del male del mondo): il danaro o, si dica, la ricchezza. Ed in ogni caso la vocazione politica, preminente ab origine e da sempre coltivata dalla mafia, va considerata in relazione stretta con l’esercizio degli affari, col fare danaro.

Dal 1860, lungo i decenni, da Crispi a Giolitti, da Mussolini a Andreotti e a Berlusconi, ciascuno a suo modo, il vigore di quella cultura si raccoglie nell’esercizio del governo del paese. Non mancano gli studi storici serii sulla vicenda politica italiana unitaria come affermazione d’una cultura governativa speciale, peculiare. In essa agiscono certo i principi politici generali che hanno contrassegnato l’elaborazione della teoria politica in Europa dopo l’Ottantanove, ma il fondamento concreto, le dinamiche costitutive autoctone plasmano e incanalano quelle istanze culturali e politiche nell’alveo d’un effettivo governare italiano che cresce autonomo annettendo anche la cultura mafiosa. Esso legittima e favorisce l’interrelazione mafiosa e pena a motivare e consolidare la figura del cittadino. È che in Italia la istituzione statuale – esteriore, protocollare, impiegatizia – stempera la sua fibra solubile nella miscela, ora blanda ora concentrata, che, volta a volta, alimenta pratiche di governo consone alle attività mafiose.